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Hulk

Ang Lee firma un film reazionario e molto cupo che tradisce allegramente il fumetto (che in fondo era il più casinista, antimilitarista e (diciamolo) psichedelico di tutta la prima produzione Marvel), trasformandolo in qualcosa che sta a metà fra King Kong e Frankenstein.

C’è troppo di tutto, in questo film, veramente troppo, tranne l’unica cosa che doveva essere necessaria, e cioé i monologhi di Hulk, i quali nel fumetto rappresentano il “punto di vista” e forniscono contemporaneamente il pathos e il senso dell’alienazione. Qui Hulk non
parla mai, e il punto di vista si perde, perché nessuno degli altri personaggi è in grado di fornirlo.

C’è talmente troppo di tutto che ci sono buchi nella sceneggiatura di cui lo spettatore si stupisce: sono tanto comodi e ampi che possibile che il gigante verde non li abbia usati per eclissarsi?

Girato meravigliosamente in maniera fastidiosamente insistita, forse gioca la carta dello split-screen per rendere l’idea delle tavole del fumetto. Per la verità non sembra un’idea azzeccata.

C’è talmente troppo di tutto che probabilmente Hulk è alla fine un film più riuscito di quanto sembri, e magari fra 10 anni non susciterà più discussioni di quante non ne susciti oggi, poniamo, Batman I. E in ogni caso varrà sempre la pena di vederlo per Jennifer Connelly, meravigliosa.

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Un pensiero su “Hulk

  • Commentato su it.arti.cinema il 1 settembre 2003.
    La discussione, ricordo, si concentrò sull’episodio del carro armato e sulla censura preventiva. Il carro armato entrò così di diritto in una rara serie di sfuggenti cose che due IACiners a caso non sono mai riusciti a vedere allo stesso modo, come il buco nella cupola del Truman Show o la coda di Pacino ne L’avvocato del diavolo.

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