Sonetàula
Ho ritrovato su un vecchio disco rigido di back-up una serie di recensioni pubblicate a suo tempo su IACine. Questa (del 10/03/2008) è dedicata a Sonetàula di Salvatore Mereu, che ripubblico perché tutto sommato la condivido ancora, anche se il prepotente avanzare delle tematiche indipendentiste obbliga forse a un giudizio più articolato rispetto a delle osservazioni che faccio nella seconda parte: c’è materia per discutere.
AVVISO: contiene alcune anticipazioni sulla trama.
Sonetàula (Salvatore Mereu, Italia 2008)
L’opera prima di Salvatore Mereu, Ballo a tre passi, ben accolto dalla critica, pluripremiato, aveva il pregio di gettare un occhio non banale sulla Sardegna, lontano dalle solite mitologie mare – banditi – turisti – sequestri – traghetti – nuraghi, e il difetto di essere discontinuo e venato da una pretesa di autorialità, sempre irritante e semplicemente insopportabile in quei passaggi in cui non era sorretta da una sufficiente ispirazione.
Il successo di Ballo a tre passi ha dato la possibilità a Mereu di fare un secondo film con budget e risorse di ben altro spessore; peccato che con queste maggiori possibilità il regista, forse condizionato dalla presenza della RAI nella produzione, abbia deciso di abbandonare la Sardegna contemporanea per andare a ficcarsi a piedi uniti nel più mortifero dei miti sardi: quello del banditismo. Diciamo che dopo Banditi a Orgosolo (1963!!) sul tema non resta poi moltissimo da dire; quello che è stupefacente è che Mereu, che sicuramente conosce tutti i precedenti, non faccia il minimo tentativo per uscire dal cliché, ma invece vi rimanga pedissequamente attaccato.
Tratto da un romanzo del giornalista e uomo politico Giuseppe Fiori, Sonetàula segue il protagonista dall’età di 13 anni (nel 1938), in cui saluta per l’ultima volta il padre, inviato al confino perché ingiustamente accusato di essere parte di una faida di paese, fino ai venticinque anni, quando cade in un conflitto a fuoco coi carabinieri.
In mezzo vi è la parte migliore del film, l’educazione burbera del nonno e dello zio, pastori, nella solitudine del “monte” e del pascolo, l’ingresso nell’età adulta, l’amore per una parente cresciuta nella sua casa. E poi, la tragedia che si prende i suoi diritti: la violenza insanguina il paese, è elemento comune della vita pastorale, mezzo attraverso cui, anche inconsapevolmente, i giovani uomini si esprimono, e il fatto che Sonetàula non sappia padroneggiarne il linguaggio, sapere dove iniziare e quando finire, sarà la sua rovina.
Il problema è che trame tragiche del genere richiederebbero il rispetto delle tre unità fondamentali di azione, spazio e tempo, oppure, perlomeno, un andamento inesorabile e scandito da tempi incalzanti; invece Mereu sceglie di allungare il brodo oltremisura; e se la parte formativa in campagna può anche aver tratto vantaggio da un andamento “maestoso” e “solenne” (non lo penso, ma sono disposto a concedere il beneficio del dubbio), dalla latitanza in poi lo spettatore stremato attende solo di poter assistere all’inevitabile finale. È possibile che la versione per la TV, che sarà in due puntate e dunque ancora più lunga, possa paradossalmente essere migliore, nel senso che alcuni snodi narrativi risulteranno meglio spiegati; ma è anche possibile che sia semplicemente più didascalica e, vivaddio, noiosa.
Due elementi di discussione
Sonetàula sollecita due domande “etiche”: valeva la pena di farlo? E valeva la pena di farlo così?
La prima domanda vuol dire: ha un senso culturale, politico, ritornare alla Sardegna degli anni ’50 e raccontare, attraverso la cartina al tornasole del banditismo, il tramonto della società pastorale, la scomparsa del codice barbaricino in favore delle istituzioni statuali (nel film, in fondo, trionfano i malvagi che sanno come farsi forti di sa iustissia, o perlomeno, sopravvive chi si sa adattare alla nuova società che avanza: Zuanne è un relitto e viene schiacciato). Valeva la pena? Boh. Se il film fosse più dolente, o più secco e tragico, forse la risposta sarebbe diversa; per quel che è risultato, forse sarebbe stato più stimolante raccontare altre vicende (per esempio, la grande tragedia della chimica in Barbagia), oppure, come tentato in parte dallo stesso Mereu nel suo primo film o da parte di altri (penso a La destinazione, per esempio) scegliere almeno punti di vista diversi e maggiormente stranianti.
La seconda domanda etica riguarda la messa in scena, che rende più complesso il film. Come già per Ballo a tre passi, Mereu sceglie attori in prevalenza non professionisti (bravissimi), e li fa recitare in dialetto barbaricino (con sottotitoli nella versione per le sale, in TV il film sarà doppiato). È chiaro che si possono fare tutti gli appunti alla trama, alla sceneggiatura alla regia, ma questa è una cifra stilistica capace di capovolgere, potenzialmente, tutto il giudizio sul film. Il problema qui, ma un giudizio definitivo richiederebbe una competenza dialettale molto maggiore della mia, è che i dialoghi mi sono sembrati molto letterari e la resa linguistica un po’ impacciata, come se agli attori, sebbene presi dalla strada, non fosse stato dato di esprimersi liberamente, ma gli fosse stato chiesto di attenersi strettamente al testo; se è così, tutto risulta veramente contraddittorio.
Naturalmente, in Sardegna, regione che conta, oltre l’usuale milione e mezzo di commissari tecnici della nazionale, altrettanti esperti di linguistica, di folklore e e di storia locale, messa in scena, adattamento del romanzo, scelta delle location, costumi e ricostruzioni d’epoca susciteranno furibonde discussioni: qualche dubbio l’ho avuto anch’io, ma il film si fregia del contributo dell’Istituto Etnografico di Nuoro, per cui cui passo.