Barbara Serra, il volto sardo di Al Jazeera: «Gli italiani non sono pigri. E la meritocrazia anglosassone ha un volto spietato» (un intervento di Massimiliano Perlato)
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Barbara Serra, il volto sardo di Al Jazeera: «Gli italiani non sono pigri. E la meritocrazia anglosassone ha un volto spietato»
di Massimiliano Perlato
Per me che faccio attività pubblicistica, il nome di Barbara Serra rappresenta sicuramente un’icona del giornalismo. Una figura che ho sempre seguito e ammirato in maniera viscerale sin dai suoi esordi televisivi. E l’affetto per lei, puramente virtuale, va ben oltre le sue origini sarde. Nata a Milano, vive all’estero da quando era bambina. A nove anni era in Danimarca. Da tantissimo tempo è una sarda nell’Underground di Londra. Non perde occasione per ricordare le sue origini isolane e la Sardegna è sempre stato l’ombelico del suo mondo. Le vacanze estive a Decimomannu, il paese natale del padre Giorgio, un ingegnere chimico, uno dei direttori del gruppo Eni, nei primi anni dell’industrializzazione, che aveva lavorato anche a Ottana, quando la chiamavano “la media valle del Tirso”. La casa dei nonni (il nonno paterno Vitale era stato podestà a Carbonia) era grande e molti cugini e zii le vivevano accanto.
«Stava bene in Sardegna anche mia madre, Luisa Rosso, siciliana di Gela. Mi ricordo le giornate al Poetto con mamma e le cugine, le gite, la pesche di San Sperate, il cenone di Ferragosto, soprattutto il sardo campidanese, che mio padre parla ancora con i suoi parenti di Decimo. Un’atmosfera estiva magica, così diversa dalla Danimarca, dove sono cresciuta. Un paese tranquillo ma sicuramente senza la bellezza e cultura, per non parlare del tempo, dell’Italia».
Forse per questo attaccamento alla Sardegna, e un po’ anche per fortuna, il suo primo lavoro è stato proprio a Videolina, la prima televisione sarda. Per un breve periodo è stata una delle conduttrici di Nottemanìa, andava in giro per spiagge, discoteche, bar, a intervistare turisti, italiani e non, che avevano scelto di villeggiare in Sardegna.
Nel 2000 inizia una collaborazione con la BBC nel programma Today e poi diventa reporter per BBC London News. Nel 2003 viene assunta da Sky News e firma vari servizi di cronaca internazionale. Poi il grande passaggio ad Al Jazeera nel 2007.
«La buona informazione vive degli stessi principi, delle stesse regole, dello stesso metodo in Sardegna e nei Paesi scandinavi, come in tutto il mondo. Dovunque bisogna rispettare soprattutto il lettore e la sua sete di verità. Vivere e crescere in Paesi diversi vuol dire esseri esposti ad altre culture e altre mentalità. Modi di pensare, che, soprattutto negli anni dello sviluppo, creano la persona che si diventa col crescere. E ci si abitua a capire che quasi tutto al mondo è relativo».
Un’educazione abbastanza liberale italiana è considerata severa nei paesi del nord Europa, dove i giovanissimi hanno più libertà, ma anche più responsabilità dei loro coetanei mediterranei. Nelle scuole danesi, gli studenti spesso chiamano il professore per nome. Ma sempre in Danimarca non è inusuale che i genitori facciano pagare l’affitto ai figli sopra i diciott’anni quando scelgono di rimanere a casa. Anche Londra, residenza di Barbara dagli anni dell’università, pur essendo piena d’italiani, offre sicuramente un’altra prospettiva che quella che si trova a Cagliari, Roma o Milano.
«A Londra ho studiato prima alla London School of Economics, poi alla scuola di giornalismo London’s City University. In questa metropoli multiculturale di più di sette milioni di abitanti, nazionalità, culture e religioni diverse esistono fianco a fianco. Questo crea una più grande comprensione fra la gente. E questo è sicuramente un bene. La maggior parte di quello che io so dell’Islam non l’ho imparato nel Medio Oriente o ad Al Jazeera, ma invece dai miei amici e colleghi musulmani a Londra. All’università abitavo con una ragazza musulmana che portava il velo. Un altro coinquilino era ebreo e non parlava al telefono dal venerdì sera al sabato sera per Shabbat. Tutti si mostrarono sorpresi che io non mangiassi carne il venerdì. Ho imparato da loro, come loro e alcuni miei altri amici inglesi hanno imparato da me che l’Italia non è solo pizza, nepotismo e mafia.
Credo che il concetto di cosa voglia dire essere straniero stia cambiando, soprattutto in posti come Londra che attraggono persone da tutto il mondo. L’ultimo censimento ha mostrato che un quarto dei residenti della capitale britannica non sono nati nel Regno Unito. Perciò la minorità straniera sta crescendo e diventando una parte integrale della società inglese. Cosa non facile. Ma senza voler far finta che in Inghilterra non ci siano tensioni, cosa che nel Regno Unito è probabilmente più marcata che negli altri paesi europei.
Forse è a causa di questo retroscena che quando ho avuto l’opportunità di lavorare per Al Jazeera, il fatto che sia un’emittente araba, e perciò straniera alla mia cultura europea, non mi ha reso diffidente. Anzi. Io sono sempre stata straniera, da quando ero l’unica bambina bruna sullo scuolabus in Danimarca, fino ad essere una delle poche non-britanniche nelle redazioni di Sky e della BBC».
C’è veramente una differenza così grande fra la cultura occidentale e quella araba? Un sardo ha più punti in comune con un danese o un egiziano? «Geograficamente, la risposta è ovvia. Il Mediterraneo, e la sua cultura, unisce la gente che abita sulle sue sponde. Anche il Medio Oriente è una regione mediterranea. Un Medio Oriente ormai al centro della politica internazionale. Che si parli di Iraq, Iran o del conflitto israelo-palestinese, è difficile di questi tempi guardare un tg che non tratti di queste situazioni. Eppure fino ad ora questi avvenimenti sono stati spiegati al pubblico globale da canali news internazionali non solo occidentali, ma puramente anglosassoni, basati a centinaia di chilometri dalla regione.
Al Jazeera in inglese sarà il primo canale di news internazionali basato nel Medio Oriente. Il suo è un ruolo chiave nell’agevolare il dialogo fra quell’area e il resto del mondo. E c’è un grande bisogno di dialogo. La natura del giornalismo è che si interessa degli estremi, delle cose fuori dal normale. Ma a volte questo crea l’impressione che gli estremi siano rappresentanti della cultura intera. Un’impressione falsa, che non aiuta a combattere il vero nemico: l’estremismo».
E anche su queste riflessioni che Barbara Serra ha scritto il libro Gli italiani non sono pigri edito da Garzanti. Sono moltissimi i giovani che lasciano ogni anno l’Italia per intraprendere un percorso umano e professionale in paesi più dinamici e più ricchi di opportunità. Ma vivere da italiani espatriati non è facile, e dopo trent’anni all’estero Barbara Serra ne sa qualcosa.
Barbara oltre che sarda, si sente italiana, ma un’italiana atipica a cavallo di tre mondi: quello delle origini, quello anglosassone di adozione, dinamico, efficiente e spietato, e quello professionale di Al Jazeera, finestra sul nuovo mondo globalizzato. In questa zona di confine ha dovuto scontrarsi con i tanti stereotipi che caratterizzano la percezione del nostro paese all’estero: la pigrizia, la disorganizzazione, l’eccessiva dipendenza dalla famiglia.
In questo suo primo libro Barbara Serra rovescia i luoghi comuni, mostrando le vere differenze culturali e lavorative fra l’Italia e il nord Europa. E scopre che, inseriti in un contesto aperto, gli italiani sanno vincere sfoderando le loro caratteristiche migliori: la creatività, la propensione alle relazioni personali, la duttilità, la passione per il lavoro ben fatto. Che, insomma, tra l’efficientismo di matrice anglosassone e l’improvvisazione assoluta c’è una terza via: ed è una via italiana.
Gli italiani non sono pigri è il racconto di un’esperienza esemplare di cui Barbara Serra non nasconde le difficoltà: «Oggi in Italia auspichiamo tutti più meritocrazia scordandoci che essa è sempre accompagnata dall’ambizione e dalla competizione più estreme; e che l’altra faccia del successo è il fallimento». È un’inchiesta che attinge a testimonianze di italiani affermati come Nerio Alessandri, Vittorio Colao, Fulvio Conti, Fabiola Gianotti, Diego Piacentini, Giuseppe Vita. È una riflessione sul senso di essere donna oggi, in Italia e nel resto del mondo. È un libro che può ispirare e guidare la generazione del nostro paese, le sue ambizioni, le sue speranze.
Come parlano di noi ora all’estero? «Un paio d’anni fa non si parlava d’altro che di Berlusconi e bunga bunga e dava fastidio, ora per fortuna è finito. Non se ne sta parlando tantissimo, l’unica cosa che vogliono è la stabilità e che si riescano a fare i cambiamenti necessari».
Nel libro si parla degli stereotipi che colpiscono noi italiani. «Sì, per sfatarli. Ci sono delle inevitabili differenze tra il contesto anglosassone e quello italiano. La più grande, secondo me, è nel come un ragazzo ventenne italiano pensa in maniera diversa dal ventenne inglese o americano: ecco, puoi fare tutte le leggi che vuoi, ma devi cambiare questa cosa».
In che senso? «Di questi tempi si parla di andare all’estero, a Londra, come della terra promessa. Non si parla mai dell’enorme competitività di un posto come Londra».
Forse perché comunque appare migliore. «Sì, però l’Italia vede la meritocrazia come antidoto al nepotismo, ma non si parla del lato spietato, dell’enorme ambizione di cui hai bisogno per andare avanti. Metà dei curriculum che mi arrivano dall’Italia sono di un’ingenuità che mi fa dispiacere, quasi nessuno ha esperienze di lavoro da giovani. Lo so che i sindacati non facilitano le cose ma non c’è proprio la mentalità. E poi non sanno presentarsi, non hanno proprio idea che per avere una chance devi diventare la persona migliore per quel lavoro. Sento sempre di questi casi di italiani di successo all’estero, ma nessuno parla mai degli italiani che non ce la fanno, eppure sono tantissimi».
Chi ce la fa, allora? «Chi ha una marcia in più. Per la maggior parte dei ragazzi ora l’unica ambizione è il mutuo e l’indipendenza economica. E non basta, perché vivere all’estero non è sempre un’esperienza positiva, a partire dal livello umano. Per esempio, in posti come Londra i colleghi sono colleghi, non sono amici: io lavoro come giornalista da 15 anni e i miei amici nel settore saranno cinque al massimo. Si separano i due mondi, perché se si parla di meritocrazia si deve parlare di competizione».
Niente amici, così non ci si sente in colpa se uno ha un successo e l’altro no. «Esatto, invece in Italia c’è tanta gente un po’ frustrata. Ma non hanno capito cosa vuol dire competere, essere ambiziosi non è una cosa negativa. Arrivista nel linguaggio inglese non ha traduzione».