Sogno di una notte di mezza estate
Vale la pena di fare una premessa: il Sogno non è una delle opere scespiriane più facili del mondo da mettere in scena, compresa com’è di una serie di “blocchi” narrativi e di registri differenti (soprattutto il lungo inserto conclusivo della recita degli artigiani). E d’altra parte, bisogna per forza, nel metterla in scena, adattarla, perché la sua struttura è comunque troppo dipendente dalla forma teatrale seicentesca, e sarebbe improponibile oggi.
La soluzione di base adottata da questa ultima versione cinematografica è, innanzitutto, uno spostamento nel tempo: dall’Atene mitologica originale all’Italia del tardo ‘800. A parte l’ovvio riferimento a Branagh, vale la pena di notare che è Shakespeare per primo a effettuare operazioni di dislocazione temporale: l’Atene della commedia sembra, nel testo originale, una corte italiana
rinascimentale (per non parlare della famosa pendola del Giulio Cesare…).
Per cui, che Hoffman decida di andare nella Toscana del diciannovesimo secolo, passi.
Quello che per una buona parte del film non sono riuscito onestamente a capire è, però, perché proprio quell’epoca e quel luogo e non, poniamo, una chiesa sconsacrata nel 1997 oppure la Londra del ‘600 oppure una qualunque altra data o luogo. Poi ho visto una festa di fate ed elfi trasformata in festa di satiri, fauni e ninfe, ho posto orecchio all’onnipresente accompagnamento di romanze dalla Traviata e ho capito che, per motivi suoi, Hoffman intende rendere omaggio all’Italia. Naturalmente all’Italia vista dagli inglesi, in cui l’eredità mitologica e quella classica si fondono, senza soluzione di continuità, con le suggestioni del Chiantishire alla Camera con vista. La legittimità dell’operazione può pure essere ammessa, ma tutto lo svolgersi del film non è riuscito a farmene scorgere il senso. Peggio di tutto, tutta la narrazione, fino ai costumi e ai “fondali”, è svolto in una chiave verista e realista che fa a pugni col carattere fantastico della storia. E questo vale anche per la colonna sonora e per le suggestioni verdiane di cui ho già detto.
Insomma, la messa in scena non è riuscita a darmi un brivido, a spiegarmi il senso del testo. Mi rendo conto che sto analizzando un film come se fosse un’opera teatrale, ma questo film (come, ad
esempio, anche Molto rumore per nulla di Branagh) è la ripresa cinematografica di uno spettacolo teatrale.
In questa non grandissima chiarezza d’idee si schierano poi gli attori, i quali fanno quello che possono (che in taluni casi non è poco…). Kevin Kline gigioneggia, mentre Sophie Marceu si rifugia in una espressione perennemente imbronciata che dovrebbe dimostrarci la sua insoddisfazione per la durezza di cuore di suo marito (rimane comunque un gran bel vedere). I due “attor giovani” (di cui scusate non ricordo il nome) e le due attrici (idem) reggono con onore la parte, ma senza acuti. In campo fatato, Rupert Everett e Stanley Tucci duettano con, nella sala in cui ero, soddisfazione del pubblico, mentre a me la Pfeiffer non è piaciuta, ma mi e’ sembrata assistita male dalla regia (e dal trucco, e dal costumista…). Bravi tutti i caratteristi, mentre, se la mia ragazza non ha visto male, Heather Parisi fa una comparsata come popolana fiorentina.
In conclusione, un’occasione parzialmente sprecata, tenuto conto che comunque il testo scespiriano alza il livello del film di un paio di spanne.
Una vecchissima recensione su it.arti.cinema, dell’ottobre 1999. Il Sogno è quello di Michael Hoffman.