Il Grande Lebowski
A Cagliari i film arrivano con settimane di ritardo rispetto a voi, così di solito mi astengo da scrivere perché mi sembra che le cose da dire siano già tutte dette. Faccio un’eccezione per questo film perché mi è piaciuto molto e ne voglio parlare comunque. Più esattamente, mentre lo vedevo in me prendeva corpo una teoria…
Tolta la teoria, il film mi è sembrato una commedia grottesca girata molto bene e con bravi attori, divertente in certi tratti e spiazzante in altri perché non sembra una commedia e finché non lo capisci non fai altro che notare nella trama dei buchi logici che chiedono veramente troppo alla tua sospensione di incredulità. È stata questa insoddisfazione latente, credo, che mi ha spinto a murigare e murigare finché non mi è improvvisamente tornato alla mente tutto quello che so sul “mito di Los Angeles”, che poi non è altro che il mito americano (mica il West: i pionieri andavano a Ovest perché dovevano andare in California, no?). Los Angeles ha rappresentato per un periodo una specie di mitica città dell’oro dove tutti potevano farsi (o ricchi o attori o tutt’e due – il giardino incantato in terra, popolato di star e in realtà una colossale speculazione edilizia) e successivamente l’antimito americano per eccellenza, la giungla d’asfalto, la polizia corrotta di Baycity di Chandler, eroi solitari, biscazzieri, donne perdute (e parallelamente Hollywood è stata ritrasformata in menzognera fabbrica dei sogni e delle illusioni, perverititrice di brave ragazze americane trasformate in oggetti del desiderio).
Visto in questa luce, il film dei fratelli Cohen è bellissimo e centrato. Gone are the myths e pure gli antimiti, i personaggi ci sono uguali (il riccone con la bella moglie, l’inappuntabile maggiordomo, il detective privato, il malloppo, l’imprenditore del piacere – un tempo biscazziere e qui sostituito da un pornografo, il capo della polizia corrotto) ma una storia che in altri tempi avrebbe visto Bogart adesso ha Drugo, ed è tutta l’America che non c’è più, è persa ancora a cercare di capire cosa sono stati gli anni ’60, tra rimpianti dei pacifisti ormai falliti, come Drugo, e rimbecillimento generale dei veterani come Sobchak: manco Rambo esiste più… l’America ha perso l’occasione di rigenerare i suoi miti e boh, quel che rimane è grottesco, eppure in fondo… positivo non mi sembra la parola adatta, direi ottimista, con una passionaccia di fondo nel futuro, nonostante tutto (come sottolineato, in contrappunto, da una splendida colonna sonora): anche questo, in fondo, è molto ‘mmerigano.
Il che è il limite, se ci pensate, di tutte le volte che l’America riflette su se stessa: alla fine non può che assolversi, come il buon Drugo si assolve e chiude il capitolo: un altro White Russian e via.
La mia prima recensione su it.arti.cinema 😉