Cose di Bunker Hill (dedicato a Andrea Salidu)
Sto rileggendo The high window, una delle storie dell’investigatore Philip Marlowe di Raymond Chandler.
Tra parentesi: come tutto Chandler il romanzo è pubblicato in Italia da Feltrinelli, col titolo Finestra sul vuoto, quindi si può reperire davvero con facilità.
All’inizio dell’ottavo capitolo Chandler si attarda a descrivere un quartiere malfamato di Los Angeles, Bunker Hill. È una bella pagina, che dimostra che si può fare ottima letteratura anche parlando di quartieri malfamati: prima di andare avanti e parlare d’altro ve la propongo (la traduzione è mia: con l’occasione ho scoperto che quella di Ida Omboni per Feltrinelli ha sconcertanti invenzioni e dimenticanze).
Bunker Hill secondo Raymond Chandler
Bunker Hill è una città vecchia, città perduta, città cadente, città di malaffare. Una volta, molto tempo fa, era il quartiere preferito della città in cui andare ad abitare, e sono ancora in piedi alcuni dei suoi complicati palazzi gotici coi portici ampi e i muri rivestiti di mattonelle con le estremità arrotondate e finestre sporgenti agli angoli della casa con torrette appuntite. Sono tutti affittacamere, ora: i loro pavimenti in parquet sono graffiati e hanno perduto l’antica lucida finitura e le scale avvolgenti sono scure per il tempo e la laccatura da poco prezzo spalmata su generazioni di polvere. Nelle alte stanze affittuarie malconce bisticciano con inquilini malfidati. Sotto gli ampi freschi portici delle facciate, con le scarpe spaccate protese al sole e lo sguardo fisso nel nulla siedono vecchi col viso che assomiglia a battaglie perdute.
In mezzo e intorno alle vecchie ci sono squallidi ristoranti e chioschi di frutta italiani e case di appartamenti in affitto a buon mercato e piccole pasticcerie dove si possono comprare cose anche più malvagie dei loro dolci. E ci sono gli alberghi che sono topaie dove nessuno che non si chiami Smith e Jones firma il registro degli ospiti e dove il portiere di notte è per metà guardiano e per metà ruffiano.
Dalle case d’affitto escono donne che dovrebbero essere giovani ma hanno facce come birra acida; uomini con la tesa del cappello abbassata e occhi veloci che scrutano la strada al di sopra della mano che ripara il fiammifero, intellettuali esausti con la tosse da sigaretta e niente soldi in banca, poliziotti con facce di granito e sguardi impassibili; cocainomani e spacciatori di cocaina; persone che non sembrano nulla in particolare e lo sanno, e ogni tanto persino uomini che vanno davvero al lavoro. Ma quelli escono presto, quando i larghi marciapiedi sconnessi sono vuoti e hanno ancora rugiada su loro.
È una bella descrizione, molto suggestiva, anche nella misura in cui offre all’immaginazione del lettore spunti narrativi autonomi: su quegli uomini duri che scrutano la strada senza darlo a vedere si potrebbe già scrivere una storia, volendo. Quello che mi ha colpito, però, non è tanto la descrizione in sé, quanto il luogo a cui si riferisce: Bunker Hill. Perché Bunker Hill non è un quartiere qualunque: è l’ambientazione di almeno un paio di romanzi di uno scrittore di culto come John Fante che, incidentalmente, è anche lo scrittore preferito del mio amico Andrea Salidu, che su questo blog è addetto a tagliar corto sulle scemenze e che così dimostra di avere un cuore appassionato sotto l’apparenza di lucidità disincantata. E sulle orme di Fante il quartiere è stato il luogo di elezione di altri scrittori e intellettuali: primo fra tutti, Charles Bukowski, che andò ad abitare a Bunker Hill proprio per assomigliare al suo idolo, l’Arturo Bandini protagonista dei romanzi di Fante, contribuendo così ad alimentare la leggenda consolidata poi da un buon numero di film polizieschi.
E così leggendo questa pagina ho subito pensato: «Devo farla leggere ad Andrea».
E subito dopo mi sono chiesto se nei due romanzi della “quadrilogia di Bandini” che sono ambientati a Bunker Hill, e cioè Chiedi alla polvere e Sogni di Bunker Hill, ci sia qualcosa di simile a questa pagina di Chandler. Anche perché fra Fante e Chandler c’è una differenza non da poco: come si vede al secondo, anglosassone, Bunker Hill non piace per niente. Per Fante, italo-americano affascinato dalle donne messicane (le mie principesse Maya), il quartiere, con i suoi abitanti latini, è divenuto il luogo con cui identificarsi.
Purtroppo non ero in grado di dare una risposta alla mia curiosità: ho letto solo Chiedi alla polvere (peraltro bellissimo) e non ho una conoscenza così approfondita di Fante da andare a colpo sicuro a ritrovare delle pagine da confrontare con quella di Chandler.
Così sono andato su Google.
E ho trovato una cosa interessante: un lungo articolo di Fante per il Los Angeles Times del 30 giugno del 1940 (The high window è del ’42) tutto dedicato al quartiere e alla sua esperienza di vita in esso. Il tono, come vedrete, è piuttosto diverso da quello di Chandler: per fare una regalo ad Andrea, e pensando che potesse essere interessante per gli ammiratori di Fante, l’ho tradotto. L’originale, in inglese, è disponibile e liberamente scaricabile sull’Internet archive.
Solo una nota di traduzione: sono nominate numerose strade del quartiere. Poiché era davvero brutto scrivere una volta “Quinta Strada” e poi “Hill Street”, ho tenuto tutti i nomi in inglese, anche quelli delle strade indicate solo da un numero, che sarebbe stato immediato tradurre. Ho anche normalizzato la grafia della funicolare e delle scalette di Angel’s Flight, che era scritta talvolta come Angels’ Flight.
Bunker Hill secondo John Fante: Good-bye, Bunker Hill!
Un tempo ho vissuto a Bunker Hill. È stata la mia prima casa in questa città incredibile. Era il 1932, un tempo di sogni per me, e di povertà. Avevo una macchina da scrivere e una risma di fogli bianchi, e avevo la mia stanza in un hotel su Bunker Hill.
Mi costava 3 dollari alla settimana, quella stanzetta, una somma favolosa in quei giorni i magro; ma desidererei di farlo di nuovo, sedere nella mia stanzetta con suo consunto tappeto verde, sedere là sull’alta sedia a dondolo fuori moda, mangiando un’arancia, i miei piedi fuori della finestra, saziando i miei occhi della città di sotto. Che sogni per un uomo! Un intero pomeriggio col sole che si rovescia giù, un’intera serata sotto bianche stelle spezzettate.
«Questo è il posto», ero solito esclamare. «Non me ne andrò mai».
Non ho mai lavorato molto in quei giorni, non ho mai finito niente più di un racconto. Mi tratteneva, quella misteriosa stanzetta col suo panorama stupefacente, quella solitaria Bunker Hill con le sue vecchie case, le sue strade tranquille e gli alberi solitari e qui e là un posto allegro, da cui veniva l’odore di hamburger cantanti, la voce avvolgente di Bing Crosby e il suono morbido di uomini che parlano e ridono.
Ricordo i pomeriggi freschi, la città di sotto, una pellicola di monossido di carbonio a soffocarla, il lamento profondo del traffico dentro la galleria di Third Street, l’acuto stridio spaventato della funicolare traballante su per Angel’s Flight.
Ero più in alto del Municipio, più in alto del Biltmore, più in alto del Grattacielo Richfield. Era il paradiso. Non potevo lavorare. Ero narcotizzato dai sogni, precipitato nel fascino delle case antiche e dei gentili alberi di eucaliptus che crescevano sui verdi pendii là sul versante occidentale di Bunker Hill. A volte scendevo alla biblioteca e prendevo un libro, magari di poesia, un qualche libro gentile e convincente, qualcosa da leggere sul fianco della collina, qualcosa che mi addormentasse sotto gli eucalipti.
Tetsu Hagamoro, che ne è stato di lui? Non è qui adesso, ma nel 1932 quel meraviglioso Tetsu aveva una bottega fra Third e Flower. Di solito mi vedeva arrivare, i suoi occhi neri che ridevano mentre si allungava verso una grossa sporta di carta. Giorni di magro per me: a volte solo un nichelino per il cibo. Il vecchio capiva, facendo di sì con la testa: a Tolyo aveva uno zio che era scrittore, anche lui. Città dura, Tokyo. Dura per gli scrittori. Così. È satto: molto, molto dula. È satto [qui c’era un tentativo di rendere la pronuncia inglese di un immigrato giapponese, ovviamente intraducibile, NdRufus]. E la testa a punta di Tetsu si chinava sul banco della verdura: sempre la stessa sporta da cinque libbre, che Tetsu riempiva di mele, arance e banane. Qualche volte avevo un decino, qualche volta quindici centesimi. Non importava a Tetsu, che riempiva sempre la sporta. Una volta mi vide passare alla larga dal suo piccolo negozio sull’altro lato della strada. Neanche un nichelino quel giorno. Tetsu mi chiamò. «È satto», disse Tetsu. «Zio in Tokyo. Lui muole fame, anche. Non tlovato monetina. Quindi. È satto. Plende flutta. Quindi. Plende. Paga dopo. Quindi. Glazie mille».
E la giornata fu salva.
Frutta, frutta, frutta. Mele a colazione. Arance a pranzo. Banane a cena. Mi sedevo coi piedi fuori della finestra, a guardare le luci della città esplodere nel verde del crepuscolo, il grembo pieno di bucce di banana e scorze d’arancia. Ma mi piaceva, aspettare il buio, aspettare la notte e una caccia nel triste splendore della Main Street e della fine della Fifth. Giù per le eterne scale di Angel’s Flight fino a Hill Street e all’incandescente incendio là sotto. Giù alla Plaza. Giù a Chinatown e a Olvera Street. Giù nell’amarezza confusa della fine della Fifth Street, bevendola, inghiottendola, la selvaggia, bella, terribile città. Poi mezzanotte e il lento trascinarsi sulle ripide scale di Angel’s Flight, contando i gradini solo per il gusto di farlo, finendo col confondersi ogni volta dopo i cento, felice di raggiungere il mio albergo, grato per il letto duro della mia stanzetta, con le sue lenzuola così lise e sottili da poter vedere il materasso a righe al di sotto. E là giacere e guardare le luci al neon saltare dal rosso al blu ai piedi del letto, la mia testa un carosello di sensazioni affannate. Giorni di gran festa, quelli. Bunker Hill di un tempo, io ti amavo allora!
Gente estranea in quell’albergo. Forestieri dell’Ohio, di New York, dell’Indiana. Gente sospettosa, gente solitaria, che odiava il proprio sospetto, desiderosa di spegnere la propria solitudine ma timorosi, timorosi. Di cosa? Non lo sapevano. Erano stati avvisati: Los Angeles, cattiva, state molto attenti agli sconosciuti.
Ero solito sedere sul portico e guardarli alla sera quando ritornavano dalla città ruggente di sotto. I loro occhi erano sorpresi, le loro bocche spalancate, il respiro veniva a fatica dopo la salita ripida. Con gratitudine si gettavano sulle sedie a dondolo del portico e guardavano confusi il cielo misterioso. La collina tranquilla li rilassava, le palme della mani viscide, macchiate di grasso gli dicevano che erano tornati di nuovo alla loro terra, via dal pazzo mondo di sotto. Le loro membra cantavano gratitudine per Bunker Hill, la dolcezza dei bambini riempiva i loro occhi tormentati.
Conosco alcuni di loro. Il signor H. viveva alla porta a fianco. H., pensionato dell’Esercito con una magra pensione, aveva a malapena abbastanza denaro per pagare il conto del barista. Spesso il povero H. doveva fare a meno del gin tre e quattro giorni al mese. Era così miserevole là nella sua stanza, sempre nudo sotto una vestaglia grigia che mostrava peli e ossa, mentre inciampava a piedi nudi attraverso un cumulo di bottiglie di gin vuote, costretto a turare avanti con vino a poco prezzo fino all’arrivo del prossimo assegno. Di notte lo poteva sentire nel letto, agitarsi e lamentarsi, mentre fumava sigarette e strofinava furiosamente i fiammiferi sul muro, imprecando la sua vita, il governo, la terra, l’umanità e specialmente il vinaccio che gli chiocciava nella gola come una gallina.
Dall’altro lato c’era la signora C., una vedova, alta, macilenta, feroce, taciturna, neanche un cenno quando la incontravi nel corridoio e salutavi. Veniva da Battle Creek, nel Michigan, ed era la più vecchia ospite dell’albergo, in cui aveva vissuto nella stessa stanza per ventidue anni.
A volte vedevo l’interno della stanza della signora C., specialmente nei caldi pomeriggi, quando apriva la porta per avere un po’ di corrente. Ti faceva rimanere senza fiato.
Era piena fino al soffitto di scatole e bauli e vecchi giornali. Ciò che si poteva vedere delle pareti era coperto da dagherrotipi con pesanti cornici dorate coperti di cacche di mosca, ritratti di uomini e donne già morti da tempo, le loro facce torve una sfida alla completa dimenticanza.
La casella della chiave della signora C. era a fianco alla mia dietro il banco del portiere. In tutti i mesi che vissi là non vidi mai la signora C. ricevere una lettera. Ma ogni pomeriggio la sua casella conteneva un nuovo arrivo: il Battle Creek News. Metà della sua stanza era occupata fino al soffitto delle pile dei vecchi numeri.
E c’era il ragazzo chiamato Cross, che lavava i piatti da Bernstein’s, e sognava del giorno in cui avrebbe avuto abbastanza denaro per tornarsene a Sidney, in Australia. Doveva avere una quota. Doveva tornare a casa con l’aria del giovanotto ricco. Era il suo piano per rifarsi, perché se n’era andato di casa tre anni prima e si era messo in guai seri con i suoi, scrivendogli che era un importante dirigente nel settore delle segherie.
E Julio, un filippino, fattorino al Biltmore che scriveva romanzi con la facilità di un ragazzino che scarabocchia il suo nome sulla staccionata: Julio, la peste, che scrisse un paio di romanzi al mese e me li portò per un parere. E Elaine, l’ambigua, amabile Elaine, che arrivò senza chiasso di notte e per due settimane fece ronzare di pettegolezzi l’albergo come un alveare; Elaine, che fece grandi affari da quelle parti finché la padrona lo scoprì e le ordinò d’andarsene.
E Leon di San Francisco, che gridava sempre nell’atrio, condannando Los Angeles senza fine, lodando San Francisco con una furia tale che nessuno osava contraddirlo. E la signorina L., sempre avvolta di nero, un sorriso perpetuo sulle piccole labbra bianche, così che il sorriso divenne gradualmente piuttosto sinistro: la signorina L., sempre di corsa verso la biblioteca da cui tornava con bracciate di libri di teosofia. Miss L. era una studiosa di lettura della mano e di tarocchi. Rivendicava una grande conoscenza di cani e animali da compagnia, ma un giorno il terrier dal pelo ispido della padrona si prese il cimurro e la signorina L. si lanciò per i corridoi gridando, e urlava: «Si salvi chi può! Si salvi chi può». Credeva che il cimurro contagiasse l’influenza e la tubercolosi agli umani, e fecero fatica a calmarla. Si chiuse a chiave nella sua stanza e spruzzò le pareti e i tappeti con il lisolo. Per settimane ci turammo il naso passando davanti alla sua porta.
Il sogno della vita della signorina L. era di installarsi un piccolo studio dove, per piccole somme, avrebbe letto le mani, i fondi del caffè, le foglie del tè e i bozzi della testa. I perditempo dell’atrio avevano delle curiose ipotesi sulle strane macchinazioni della signorina L., ma non si possono pubblicare.
Ma sono andate, adesso, quelle persone, sparpagliate come la polvere. Ogni cosa cambia e per il meglio o il peggio il cambiamento venne per me, e gli anni sono gocciolati via e Bunker Hill è solo un ricordo. Ha dato al mio pensiero cibo e bevanda, ha saziato la mia fame di vita nonostante il severo rigore della dieta esclusiva a base di frutta durante quei mesi eroici.
Ogni cosa cambia, e adesso Bunker Hill affronta il cambiamento. Sembrava fuori del tempo e adesso la stanno riponendo via. Sui giornali c’è la storia: la vecchia Bunker Hill se ne deve andare. I vecchi alberghi, le palme coraggiose, le strade tranquille – via tutto! Stanno per buttar giù Bunker Hill, o costruirci sopra, o cancellarla, o qualcosa. Mi fa male. Mi bagno le labbra e aspiro dalla mia sigaretta e sorrido. Quei preziosi mesi! Quelle tenere notti! Come li segnerò? Dove andrò per ritrovarne il ricordo?
Stanno per cambiare Bunker Hill, sì, ma nel mio cuore le palme sospirano ancora, i piccoli campi d’erba sui pendii rimangono per sempre verdi, e l’aquilone di un ragazzo è impigliato senza speranza fra i rami di un coraggioso eucalipto.
Le immagini e il destino di Bunker Hill
Preparando questo articolo mi sono imbattuto in molte bellissime immagini del vecchio quartiere. Qualcuna l’ho riportata a corredo del testo, ma segnalo almeno il sito The Lost Victorian Mansions of Downtown LA; oppure andate su Google Immagini e digitate come chiave di ricerca “Bunker Hill Los Angeles”: troverete elementi per un viaggio visuale che darà tutta un’altra profondità alle vostre letture di Chandler e di Fante (e di Bukowski).
Vale anche la pena di dire che quella Bunker Hill oggi non esiste più. Non tanto per i cambiamenti che annunciava Fante al termine del suo articolo: o meglio, il quartiere resistette al cambiamento fino agli anni ’80. Poi il più grande processo di risanamento urbanistico – e di cinica speculazione immobiliare, ovviamente – spazzò via del tutto le case ottocentesche, sostituendole con enormi grattacieli e incidentalmente costringendo ventiduemila persone che vivevano nella zona a sloggiare: la storia è raccontata, con dovizia di particolari, in un libro di Mike Davis (di cui ho già consigliato Città di quarzo) che si intitola Città morte: storie di inferno metropolitano ed è edito da Feltrinelli (titolo originale: Dead cities and other tales): purtroppo è fuori catalogo, ma su Google libri ce ne sono ampi stralci. Io gli ho dato un’occhiata e, a occhio, è la storia di un delitto (urbanistico): quindi forse per raccontarla sarebbe servita più la penna di Chandler che quella di Fante!