Quel che ho detto al Convegno pastorale regionale
Non ho molti commenti da fare sul Convegno pastorale regionale al quale ho partecipato sabato insieme col gruppo “La Pira” praticamente al completo e a un paio di centinaia di altri giunti da (quasi) tutte le diocesi della Sardegna (a questo indirizzo trovate le registrazioni di buona parte delle relazioni e altro materiale per farvi un’idea di come si è svolta la giornata).
Due cose soprattutto mi hanno colpito: da una parte la sproporzione, onestamente, fra l’intervento di Vittorio Pelligra, che formalmente doveva limitarsi a una lettura socio-economica, e tutte le altre relazioni. Mi è sembrato sia mancata, complessivamente, quella lettura teologico-sapienziale che serve a creare una cornice entro cui mettere le discussioni dei problemi concreti e le possibili soluzioni individuate. Di fronte a questa carenza Vittorio si è caricato sulle spalle tutto il Convegno: il che un po’ segnala un deficit di discernimento comunitario al quale i gruppi di lavoro hanno posto rimedio solo parzialmente.
L’altro fatto è stato che le cose imprenditorialmente più interessanti e innovative, secondo me, non sono venute dal gruppo dedicato all’impresa, come era lecito aspettarsi, ma da quello dedicato alla famiglia. I “professionisti” del primo gruppo, sindacalisti, presidenti di cooperative, imprenditori, erano forse più preoccupati di segnare il punto e indirizzare la riflessione verso il proprio campo (che si chiamasse economia sociale, economia civile, Terzo Settore, cooperazione, no profit o al contrario profit responsabile: ciascuna sigla include certi ed esclude altri); nel gruppo sulla famiglia sono comparsi invece settori sui quali la comunità cristiana si è sinora misurata poco e che invece sono molto interessanti: gruppi di acquisto, servizi condivisi fra le famiglie e cose del genere.
Quel che ha detto lo zio Rufus
Io ero nel gruppo su Lavoro e impresa e a un certo punto ho preso la parola, con effetti peraltro inaspettati. Riporto qui il mio intervento, magari espandendolo un poco visto che qui ho lo spazio per citare le fonti, sia perché magari interessa chi mi conosce e non c’era, sia perché così magari preciso rispetto agli… effetti inaspettati.
Sono partito dal ricordare che la lettera dei Vescovi sardi, a un certo punto, invoca un nuovo pensiero economico, cosa che mi ha interessato e colpito molto. Purtroppo però subito dopo sembra che il nuovo pensiero economico al quale si pensa sia un semplice aggiustamento delle politiche economiche (dall’industria al turismo, poniamo) dentro un quadro di riferimento che rimane lo stesso.
Una risposta può venire solo da una nuova cultura economica che guardi meglio il nostro territorio, le sue capacità e le sue proposte e promuova lo sviluppo delle risorse locali – agricoltura, allevamento, artigianato, pesca, turismo – e la sostenibilità delle piccole e medie imprese. Per riuscirci occorre anzitutto che l’intera comunità, a partire dagli amministratori, sappia impegnarsi a suscitare corresponsabilità. Responsabilizzare le persone, coinvolgere quelle capaci e disposte a lavorare per se stesse e per gli altri è un lavoro fondamentale che sta alla base di un reale cambiamento. Costruire un’agenda condivisa di speranza sul versante di una nuova cultura economica, promuovendo un continuo confronto nei diversi ambiti della socialità (comuni, parrocchie, scuole, associazioni, istituzioni imprenditoriali e sindacali) è il compito arduo ma irrinunciabile che attende tutti noi.
Nella misura n cui delinea il metodo della corresponsabilità è senz’altro condivisibile, come traccia per un nuovo pensiero economico mi pare piuttosto debole. A me pare invece che, così come per anni la Chiesa non ha avuto paura di dire che il comunismo non era compatibile con la fede cristiana, così ora il modello capitalistico non è, allo stesso modo, accettabile. Durante il convegno ho genericamente detto: «del resto lo dicono anche i Papi, quindi credo di essere nell’ortodossia», qui indico la riflessione della Centesimus Annus (guardatevi i numeri 33, 35, 40 e 42) e dico che pensavo soprattutto a un brano della Caritas in Veritate (al numero 41, il grassetto è mio) e al nuovo ordine mondiale che ipotizza
Al fine di realizzare un’economia che nel prossimo futuro sappia porsi al servizio del bene comune nazionale e mondiale, è opportuno tenere conto di questo significato esteso di imprenditorialità. Questa concezione più ampia favorisce lo scambio e la formazione reciproca tra le diverse tipologie di imprenditorialità, con travaso di competenze dal mondo non profit a quello profit e viceversa, da quello pubblico a quello proprio della società civile, da quello delle economie avanzate a quello dei Paesi in via di sviluppo.
Anche l’autorità politica ha un significato plurivalente, che non può essere dimenticato, mentre si procede alla realizzazione di un nuovo ordine economico-produttivo, socialmente responsabile e a misura d’uomo.
E quindi con questa idea ho provato a indicare tre piste di lavoro in vista di un nuovo modello economico.
La prima riguardava il dibattito, che serpeggiava, sulla forma “giuridica” delle imprese che in qualche modo la comunità cristiana deve privilegiare o sentire maggiormente come proprie (mi pare che, complessivamente, la cooperazione e la cooperazione sociale fossero in posizione preminente). Piuttosto che entrare direttamente nel dibattito promuovendo l’una o l’altra io credo, anche per le cose che vedo in ogni momento in Banca Etica, che il tema sia di privilegiare quelle imprese che hanno una forte dimensione comunitaria, cioè che sono espressione di una comunità e producono ricchezza (economica, sociale, ambientale, relazionale, culturale) principalmente per la loro comunità e che a favore di queste imprese si dovrebbe soprattutto lavorare, anche nella comunità cristiana.
La seconda osservazione era la richiesta di una attenzione, nella catechesi ordinaria, nella esposizione che si fa della dottrina sociale della Chiesa e nei momenti in cui si ragiona sulla mobilitazione politica della comunità cristiana, ai temi della globalizzazione e del governo mondiale. Un argomento attuale e importante come il TTIP, per esempio, è passato del tutto al di sopra della vita ordinaria della comunità cristiana, così come scarsa attenzione è data ai trattati sugli OGM o ad altre forme di regolamentazione globale: l’attenzione per la salvaguardia del creato, che anche la lettera della Conferenza Episcopale Sarda invoca, la giusta remunerazione dei lavoratori, la possibilità di fare impresa con i prodotti tipici o con le ricchezze locali, per esempio, dipende sempre più da decisioni prese fuori del nostro territorio (penso anche alle dismissioni di imprese sarde, anche recenti) e da giochi di potere che ignoriamo del tutto – mentre non dovremmo.
La terza pista che ho indicato è quella per la quale ho avuto effetti indesiderati. Volevo dire, in sostanza, che un po’ di questo nuovo pensiero economico dovremmo anche produrcelo in casa, o meglio: che si dovrebbero fare delle scelte di campo evidenti, con dei gesti simbolici espressivi di un pensiero economico “altro”. Non solo fare catechesi e sensibilizzazione, cioè, non solo promuovere forme di economia innovativa e comunitaria, ma anche dei gesti di compromissione.
E lì mi sono probabilmente espresso male. Da una parte mi veniva spontaneo, per me che faccio finanza etica, chiedere provocatoriamente dove i fondi della Chiesa, per esempio quelli dell’otto per mille, venissero depositati. Però non mi sembrava elegante parlare sempre di finanza etica quasi pro domo mea, in quel contesto non mi sembrava necessario e quindi ho citato la cosa en passant e ho preferito fare invece l’esempio dei beni immobiliari delle diocesi, da mettere al servizio della comunità come anche gli stessi Vescovi propongono
vogliamo impegnarci ad una maggiore sobrietà e trasparenza nell’uso dei beni delle nostre Diocesi, ad esempio con una più attenta valorizzazione del patrimonio immobiliare a servizio della comunione ecclesiale e del bene comune.
Temo invece, nella velocità dell’intervento e passando subito all’esempio dei beni immobiliari, che il pubblico abbia capito che chiedevo che l’otto per mille venisse impiegato diversamente, che è davvero un altro concetto. Detto in altro modo: secondo me che i fondi della Chiesa vadano sui conti di banche armate, o di banche che finanziano il nucleare, o l’inquinamento, o altre cose altrettanto inaccettabili, è motivo di sofferenza; che i fondi dell’8 per mille vengano utilizzati per fini di culto o altri fini “non sociali” (che poi, oltretutto, sulla socialità ci sarebbe da discutere) o, per dire, per l’edilizia religiosa, è del tutto accettabile.
La cosa, però, ha colpito, e questo tema del “come usare l’otto per mille” è poi tornato più volte, discussa in vario modo e ben oltre le mie intenzioni, devo dire, anche lasciandomi perplesso: avevo ascoltato tutti gli interventi, non mi ricordavo che nessuno avesse sollevato il problema e mi dicevo: ma chi sarà che ha fatto tutto ‘sto scarnazzo sull’otto per mille.
Ooops: ero io, guarda un po’.
E pensare che io non volevo sapere come viene usato; ma in quali conti correnti è depositato, di quali banche, questo sì che secondo me sarebbe da discutere. Anche se l’ho detto en passant, mannaggia.