Un paio di cose che probabilmente non sapete sul gioco d’azzardo (e sullo zio Rufus) – 1
Borghesi al tavolo da gioco
Intorno ai vent’anni giocavo molto a bridge.
Insieme con una pattuglia di amici (che sostanzialmente erano i miei giocatori di ruolo del tempo) partecipavamo almeno una volta alla settimana a un torneo di bridge. Fare un torneo – durava una serata, più o meno – è la forma sportiva del gioco, abbastanza evoluta e sofisticata da renderla lontana dalla versione familiare e amichevole tanto quanto una partita a pallone in cortile è diversa da una in un campo regolare, undici contro undici. All’epoca a Cagliari si poteva partecipare, volendo, a un torneo tutti i giorni: c’era tutto un milieu di circoli, del tennis, culturali, di quartiere e, ovviamente, del bridge che permettevano a chi voleva di esercitarsi anche sette giorni su sette, nel fine settimana di pomeriggio e negli altri giorni dopo cena e fin verso mezzanotte.
Non so se avete presente quella battuta che dice che il football americano è un gioco da bestie giocato da bestie, il calcio un gioco da gentiluomini giocato da bestie e il rugby un gioco da bestie giocato da gentiluomini. Sul bridge di quell’epoca a Cagliari si potrebbe fare una qualche battuta simile: un gioco da scienziati assennati giocato da, come dire?, borghesi è un’espressione forse un po’ antiquata ma perfettamente adatta.
A parte noi ragazzotti e un po’ di amanti del gioco per il gioco, molti degli aficionados erano commercianti e professionisti, gente spesso altera, facoltosa, che nelle varie serate esibiva una serie di giri e rigiri che se non li avessi visti di persona li avrei considerati letterari. Il tizio col bicchiere di whisky perennemente in mano. La moglie giovane e bella di un marito noioso alla ricerca di un amante più emozionante. L’amante giovane e bella di un uomo emozionante che scopre che c’è sempre un’altra donna più giovane e più bella. Bicchieri di liquore scagliati in piena faccia. La coppia isterica che risolve al tavolo da gioco conflitti matrimoniali irrisolti. Giovanotti di belle speranze intenti a dimostrare che chi è bravo a gestire l’organizzazione di un torneo merita magari di essere cooptato nei giri che contano, fra sigari e medaglioni.
Cose che la corazza dei vent’anni ti fa guardare con un po’ di curiosità mista a scetticismo: non avevo mai conosciuto uno che mantenesse un’amante in un pied a terre in Castello (letteralmente a terre, nel senso che in effetti era un sottano); anzi: non avevo mai conosciuto una ragazza poco più grande di me che considerasse normale vivere in un sottano di Castello nell’attesa improbabile che il quarantenne che le pagava l’affitto le offrisse qualcosa di più. Oggi su ciascuno di loro ci farei sopra tutta una serie di pensieri e di riflessioni di umana pietà, all’epoca io e gli altri ci sentivamo molto gente di buon senso paracadutata in un ambiente di marziani e ci additavamo l’un l’altro il personaggio in cerca d’autore che in ciascuna serata saliva sul palcoscenico.
Giocare a soldi
Uno che spesso additavamo era quello che si era giocato anche la camicia.
Cioè: quando l’ho conosciuto giocava forte – e perdeva – ma non si era ancora rovinato.
Non era nemmeno il solo che giocasse d’azzardo – gli amici più grandi mi spiegavano che in alcuni dei circoli all’una di notte, finito il torneo, non tutti andavano via: qualcuno rimaneva e si iniziava a giocare a soldi.
C’era insomma un giro ulteriore di persone che al whisky, alle corna e alle mattane aggiungeva il gioco d’azzardo, e poi molti giocavano, a soldi, anche nelle abitazioni private – ma lui era quello di cui si sapeva comunemente che perdeva, e perdeva forte. All’epoca la sua parabola era ancora come sospesa e quel che retrospettivamente mi turba è che nessuno di noi percepisse l’inevitabilità dell’urto catastrofico che alla fine doveva per forza arrivare: il grande negozio di famiglia aveva l’aria un po’ più dimessa, per dire, ma tutto proseguiva come prima. Apparentemente. Un paio d’anni dopo era già chiuso: all’epoca già avevo smesso di giocare e di frequentare l’ambiente, ma notai il succedersi anomalo di saldi, svendite ripetute per rinnovo locali, vendite promozionali, e infine la liquidazione. Seppi poi da conoscenze comuni che i beni di famiglia, compresa la casa, erano andati via tutti.
Quel che mi turba un pochino, dicevo, è che nessuno di noi fece niente. Non c’era confidenza – e c’era invece una notevole differenza d’età, che all’epoca contava forse anche più di adesso – e quindi non è che qualcuno potesse assumere il ruolo di amico e consigliere, tanto più che il carattere dell’uomo non lo rendeva particolarmente facile. Ma comunque nessuno di noi spese una parola, per dire, nemmeno coi dirigenti degli ambienti interessati, che pure permettendo il gioco nei loro locali qualche responsabilità, anche legale, ce l’avevano: come se tra il nostro mondo e quello ci fosse una barriera insormontabile, diciamo, e gli altri appartenessero a quella letterarietà che dicevo. Qualcosa di cui si parla, come le abitudini degli indigeni in Papuasia, ma senza pensarci davvero. Oggi, da adulto, ragionerei diversamente e sentirei altre urgenze: all’epoca andò così. Poi altri interessi mi portarono a dedicarmi di più ad altre cose, i miei amici si ritagliarono spazi di gioco diversi e, in un certo senso, “garantiti” (per cominciare: garantiti dal whisky in faccia) e io persi del tutto i contatti con l’ambiente.
Naturalmente io ho conosciuto questa dimensione particolare ma non è che la questione riguardi specificamente il bridge, che rimane un gran gioco e in Olanda è addirittura materia di insegnamento nelle scuole (e infatti a GioCagliari, all’epoca, la sezione di bridge la volemmo, fortissimamente la volemmo). Non è che nelle pieghe di quelli che si ritrovano per il pokerino settimanale non si celino, probabilmente con maggiore frequenza, altri che si sono giocati la camicia, per dire.
Qualche volta su gente che mi raccontava di questi appuntamenti settimanali qualche dubbio mi è venuto, compresa una certa tendenza in alcuni a cercare il pollo settimanale da spennare: del resto bisogna sempre ricordare che dove c’è gente che perde forte c’è per definizione qualcuno che lo sta pelando, probabilmente sistematicamente. E confrontando i montepremi di un tipico torneo di bridge, di un torneo di scacchi e di uno di poker si intuisce che è in quest’ultimo ambiente che l’aspirazione a premi economici significativi è più radicata. È solo che essendo scarsissimo a poker non l’ho mai frequentato in modo approfondito, e quindi gli aneddoti sul gioco d’azzardo li ho accumulati in altri ambienti.
E poi, naturalmente, c’è tutta la parte del gioco d’azzardo in qualche modo sanzionato dallo Stato, i giochi a premi, le scommesse, le slot machine eccetera eccetera. E per ciascuna di queste categorie c’è la controparte sistematica dell’illegalità.
Infatti è di tutto questo che volevo raccontare, in realtà, a partire dalle notizie di cronaca recenti che riguardano persone anche molto note, ma l’ondata dei ricordi mi a un po’ travolto e mi sono perso: vuol dire che lo rimanderò alla prossima puntata!