Il vostro inviato quasi in diretta dal “Festival delle terre”
Sono andato ieri alla prima giornata cagliaritana del Festival delle terre 2014, nell’insolita collocazione (peraltro bella) dell’ExMa.
Il Festival è da sempre dedicato al tema della biodiversità: quest’anno l’accento cade sui contadini, secondo due sezioni tematiche: una è quella che riguarda la sovranità alimentare e il diritto dei contadini ad accedere alle risorse necessarie per la produzione (dalle sementi alle zone di pesca artigianale), l’altra riguarda la crescente finanziarizzazione dell’agricoltura.
Se non capisco male l’enfasi della tappa cagliaritana riguardava più la prima sezione: un po’ mi dispiace perché, ovviamente, il tema della finanziarizzazione mi interessa non poco, però in un paio d’ore ho visto diverse cose davvero molto interessanti.
S’ammentarzu Lav/Oro tra le mani (Maria Giovanna Dessì, Italia 2013)
La più debole era, purtroppo, quella di produzione locale, S’ammentarzu, un documentario ambientato nel Sulcis che presenta il rapporto con la terra nella parabola di tre generazioni. Pur provocatorio nelle affermazioni dell’operaio Antonello Pirotto (che rappresentava l’età di mezzo) il documentario è troppo sceneggiato, troppo poco naturale nel modo di porsi di tutti gli altri testimoni intervistati. Diventa così retorico e un tantino declamatorio, fino a dare in qualche momento l’impressione di essere troppo intenzionalmente promozionale dell’esperienza del Centro sperimentazione autosviluppo: non che non se lo meritino, ma fra promozione e documentazione la differenza dovrebbe sempre essere netta. È comunque interessante guardare il documentario confrontandolo con il più efficace Cattedrali di sabbia presentato l’anno scorso.
Contadini a Milano (Matteo Ganino, Italia 2014)
Al contrario di S’ammentarzu il documentario Contadini a Milano si limita a dare voce ai testimoni, con un approccio magari in partenza più freddo ma che si rivela alla fine molto più efficace. Sentir dire nella presentazione del video che Milano è il secondo comune agricolo d’Italia fa impressione, ma quel che colpisce è vedere i volti e sentire le voci e i racconti dei vari proprietari delle cascine e dei loro familiari, gente che fa agricoltura (agricoltura vera con polli e bestiame o come coltivare il riso, non boschi verticali o altre finzioni) nel posto nel quale tutti meno ci immagineremmo che si possa fare. E dove oltretutto non ti ci vogliono perché si preferirebbe costruire, ovviamente.
Domenica ero a un seminario sullo sviluppo rurale e qualcuno ha usato l’espressione agricolture resistenti. Quando Ganino ha raccontato l’esperienza del documentario e quel che ha scoperto lavorando con questi contadini ha usato quasi la stessa espressione: «Mi hanno insegnato tanto su cosa vuol dire resistere». Il punto, alla fine, mi sembra davvero tutto qui.
Malumori
Avevo pensato già l’anno scorso che ci vuole un po’ di stomaco per vedere il Festival delle terre, perché si vedono nefandezze che alla fine ti fanno star male.
Oddio: non prendetemi troppo sul serio. Se no poi al Festival non ci va più nessuno e questo non solo è male per gli organizzatori, che ci mettono passione e fatica, ma anche perché se non vedi e non tocchi con mano certe cose non le capirai mai per bene. Non è che tutto può essere Repronzolo o Riccioli d’Oro (oddio, a certa gentaglia piacerebbe che ci fermassimo là).
Direttiva 9.70 (Victoria Solano, Colombia 2013)
Il discorso vale soprattutto per questo documentario, durante il quale a un certo punto fisicamente l’angoscia mi ha preso talmente alla gola da farmi star male. Eppure non c’è dentro niente di truculento, anzi, più che altro contadini intervistati sullo sfondo di inappuntabili salotti di modeste casette rurali o davanti allo sfondo ridente dei loro campi di riso.
Ridente. Un po’ come direbbe Brecht
Chi ride l’orrenda notizia non l’ha udita ancora
Ciò che pesa incredibilmente sul cuore è la sostanza del racconto, che riguarda complessivamente la ben nota questione dell’appropriazione dei semi e dei diritti intellettuali sulla biodiversità da parte delle multinazionali dell’agroalimentare. Sciacalli. Maledetti. Li odio. La loro ingiustizia grida davanti a Dio.
Scusate, avevo bisogno di spurgare la bile.
Obama ci fa una pessima figura, oltretutto, ma non è questo il punto. Il punto è, parafrasando e capovolgendo il povero Carlo Rosselli, oggi in Colombia domani in Italia. Sarà il caso di svegliarsi davvero, e non per quelle cretinate delle scie chimiche.
Scusate, a momenti ricominciava a battermi la vena.
Destination de Dieu (Andrea Gadaleta Caldarola, Italia 2013)
Stavo così male che ho chiesto a Maria Bonaria di tornarcene a casa. Per fortuna ci siamo fermati a vedere le prime battute del documentario seguente: così siamo stati catturati e sono stato molto contento di non essermelo perso.
Oddio, non è che la descrizione di un’enorme baraccopoli abitata dalle parti di Foggia da immigrati che lavorano nei campi sia una cosina rose e fiori: ma il documentario assume l’aria stranita dei migrtanti, i quali non riescono, loro, a credere che nella civile Italia ci possano essere cose del genere. «In Africa non ho mai visto cose del genere», dice uno, e quest’aria di spaesamento prende con loro anche gli spettatori.
A me questo è il documentario che è piaciuto di più: l’ho trovato, nella sua disarmante impossiiblità di capire il livello di barbarie a cui si può arrivare in Italia, di grandissima potenza.
Stasera dalle 18 si replica si parla soprattutto di pesca. Domani vi racconto.
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