Interrogativi sul crowdfunding di Lìberos
Come molti altri iscritti al social network di Lìberos ho ricevuto nei giorni scorsi l’invito a contribuire alla nuova stagione di finanziamento del circuito mediante il crowdfunding sulla nuova piattaforma SmartHub.
Ci sono un paio di cose, nella mail di invito e nel video di lancio dell’iniziativa, che a pelle mi lasciano un tantino perplesso e che mi appunto qui, come contributo al dibattito pubblico, tanto più necessario in quanto Lìberos si propone come una delle realtà culturali più importanti e innovative della Sardegna e quindi è senz’altro di interesse per tutti quelli che hanno a cuore le politiche culturali dell’isola (e oltre).
Di etica
Tanto per cominciare, sono un po’ infastidito dall’uso ricorrente del termine “etica” nel lancio della campagna. Con la mia associazione (i Fabbricastorie) anch’io ho ritenuto opportuno fare uno sforzo di rete e ho aderito al Codice Etico di Lìberos. Ma avere un codice etico non è esattamente come fare etica, tanto più che il codice è abbastanza scheletrico: sostanzialmente implica l’adesione a un patto di mutuo sostegno fra gli operatori del settore, come si vede nell’introduzione
Facciamo un patto di solidarietà
L’associazione Lìberos, che ha come scopo primario l’incentivazione della lettura sul territorio sardo, nasce per riconoscere e proteggere le relazioni naturali che esistono già tra chi, per mestiere, passione o incarico istituzionale, si occupa di fare azione culturale intorno al libro.
Si rivolge pertanto agli autori, agli editori, ai librai, ai bibliotecari, alle associazioni, ai festival, ai professionisti e a tutti gli attori che promuovono attività culturali direttamente o indirettamente legate alla lettura. Per essi ha l’ambizione di rappresentare un prezioso e gratuito strumento di rete, in particolare per i più indeboliti dagli indirizzi di mercato e dalle politiche dei tagli ai fondi pubblici per la cultura.
L’associazione Lìberos opera quindi sul territorio sardo attraverso la forza di un patto di solidarietà tra gli operatori del circuito. Questa solidarietà è fatta di comportamenti attivi definiti da un codice etico. I mediatori culturali professionali, no profit o istituzionali che vogliono aderire alla comunità di Lìberos si impegnano a condividerne lo spirito e a offrire ai lettori sardi esperienze dove la qualità dell’offerta culturale non sia mai separata dal rispetto delle relazioni di rete.
a cui si si aggiunge specificamente un rifiuto, questo si eticamente motivato, nei confronti dell’editoria a pagamento e uno, dai tratti molto meno difendibili, che esclude gli autori autopubblicati. È chiaro che la volontà di lavorare in rete è già un tratto distintivo e culturalmente rilevante ma, considerato che anche i cattivi spesso fanno rete, non è ancora esattamente etica. Diciamo che oggi Lìberos è un circuito di operatori e un festival (cioè Éntula) che ha una sua visione di cultura e di politiche culturali necessarie per la Sardegna, ma forse sarebbe meglio lasciare l’etica a definire altro, senza inflazionare il termine.
Di rapporti societari
Devo dire che istintivamente mi ha anche lasciato perplesso il meccanismo per il quale a proporsi per la raccolta di fondi è una società nuova di zecca, Isterre, e con me so che anche altri sono rimasti stupiti. Mi sono immaginato che la scelta dipendesse dal voler preservare l’associazione originaria dai rischi e dalle complicazioni di un’operazione di crowdfunding di questo genere, o che fosse per mantenere a parte l’iniziale identità regionale di Lìberos. Vedo dalle FAQ sull’operazione che le motivazioni sono più o meno queste, con una sottolineatura sulla natura giuridica dell’associazione:
Lìberos è un’associazione culturale e la sua natura di ente non commerciale deve essere mantenuta, per rispetto allo statuto, alla sua struttura e ai principi a cui si richiama. Per sviluppare e replicare il modello Lìberos è quindi nata una società, perché le operazioni finanziarie necessarie per farlo non sarebbero compatibili con la natura di Lìberos.
Tuttavia devo confessare che né sul sito di Isterre né su quello di Lìberos né sulla piattaforma di crowdfunding ho trovato come siano regolati esattamente i rapporti fra le due organizzazioni, una cosa che a me interessa in quanto parte della rete ma che immagino sia rilevante anche per i futuri investitori: leggo su SmartHub che a Isterre è stato concesso il marchio. Solo per il resto d’Italia o anche per la Sardegna? A parte il marchio chi avrà la titolarità (politica, culturale, organizzativa) della conduzione del progetto in futuro? Ancora l’associazione Lìberos oppure Isterre? Se è la prima, considerato che la seconda avrà i cordoni della borsa, che libertà potrà mantenere? Se sarà la seconda, che fine fa la vecchia associazione? Oppure sono due percorsi paralleli ma sostanzialmente indipendenti? Se finanzio Isterre il circuito sardo a cui già appartengo ne avrà dei benefici oppure no? Eventuali differenze di visione e di indirizzo fra le due organizzazioni sono state prese in considerazione? Se si, come verranno risolte? Le FAQ si concentrano sulle rispettive identità ma dicono molto poco sulle relazioni:
Partecipare alla campagna di equity crowdfunding promossa da Lìberos significa acquisire delle quote di Isterre srl Impresa sociale, far parte di questa società, essere realmente dentro il progetto di sviluppo e di replica in altre regioni d’Italia.
Lìberos rimane sempre e comunque un’associazione, una comunità di lettori, un circuito di operatori della filiera del libro e un laboratorio permanente di progettazione culturale.
Nel video di presentazione compare sia Aldo Addis, che è presidente di Lìberos, che Francesca Càsula, che è sia segretaria di Lìberos che amministratrice unica di Isterre, quindi non c’è dubbio sull’unità di intenti attuale e si potrebbe pensare che le mie siano domande oziose: ma capire quali sono i rapporti formali permette di capire quali evoluzioni future possono capitare e quali sono impossibili. Mi sembra un tema politico non da poco.
Anche da un punto di vista tecnologico ci sono delle cose non molto chiare. La raccolta di fondi serve, sembra di capire, a mettere in produzione una nuova piattaforma web per i servizi di rete, che permetta di estenderli al resto d’Italia: noi che ci siamo iscritti in precedenza alla piattaforma attuale, stipulando un patto con Lìberos, che rapporto avremo con Isterre? Entreremo a far parte di una community più vasta o sostanzialmente per noi tutto rimarrà uguale? Useremo un altro software o quello attuale? Quando si parla di replicabilità e scalabilità del progetto vuol dire che ci sarà un’unica piattaforma nazionale o tante piattaforme locali? Apparentemente la scelta sembrerebbe la seconda: ogni soggetto che vuole replicare il progetto paga un costo d’ingresso e delle royalties in percentuale sul fatturato e riceve in cambio un avviamento (start up kit). Già: e i rapporti di questi concessionari fra loro (tecnologici, organizzativi, politici) come saranno? Che tipo di gestione di rete plurale si ha in mente? E, già che ci siamo, quale sarà il Codice Etico di queste altre reti? È astrattamente possibile una rete Padanos dedicata alla preservazione dell’identità culturale delle valli bergamasche e che non ammette editori non italiani, anzi, nati sotto la Linea Gotica?
Parentesi: a me tutto sommato per aderire mi piacerebbe vedere anche lo statuto di Isterre, e non solo la visura camerale presente sulla piattaforma, perché non mi pare chiarissimo neppure che diritti – di voto in assemblea, per esempio – avrei in caso di adesione: se i due soci attuali detengono l’80% dell’equity e con la raccolta fondi si distribuisce solo il restante 20% mi pare di capire che si è destinati a un ruolo di minoranza per definizione.
Se alla fine della raccolta l’obiettivo è stato raggiunto, verrà emessa la quota di partecipazione corrispondente al tuo contributo
Ora, negli anni sono stato socio di una mezza dozzina di riviste della sinistra – fino al Diario, poi per fortuna ho smesso – della Fondazione del Teatro Valle e di un sacco di altre cose, quindi non è che un investimento individuale per il bene della cultura mi faccia spavento, perfino se fosse a fondo perduto, ma insomma magari sapere che poteri avrei come socio non mi dispiacerebbe – non mi sarebbe neanche dispiaciuto un approccio più democratico nella gestione della società, magari sul genere “una testa un voto”. Si dice su SmartHub
Essere impacter significa far parte del network di persone che credono nell’iniziativa e ne supportano lo sviluppo e la crescita. Significa acquisire una quota di partecipazione di Isterre S.r.l. Impresa Sociale (la startup innovativa responsabile dello sviluppo) e ricevere aggiornamenti trimestrali sull’andamento del progetto. Potrai in ogni momento verificarne lo status grazie alla reportistica di mentor e tutor e sarai parte della squadra.
Non c’è dubbio che «essere parte della squadra» sia cosa molto buona, ma la crescente complessità dell’economia sociale richiede un rigore che deve andare oltre, molto oltre, e affrontare su basi più solide il tema della partecipazione degli stakeholders, soprattutto un progetto che della compartecipazione di attori diversi ha fatto il proprio tratto distintivo (tra l’altro il sito evidenzia la possibilità di contattare mentor e tutor solo attraverso Facebook, Twitter e LinkedIn e francamente sembra un po’ poco: forse dei recapiti mail istituzionali per ciascuno si potevano creare).
Seconda parentesi. Oh, intendiamoci: sono domande. Magari sono io che sul sito di SmartHub non ho saputo cercare bene, e le cose che chiedo sono già là in evidenza. O magari sono su Lìberos. Se qualcuno me ne segnala la locazione gliene sarò grato. Però io sono un navigante di media competenza, quindi il fatto che non le abbia trovate vuol dire, forse, che se ci sono non sono abbastanza in evidenza (o che io sono molto distratto o molto pignolo, ça va sans dire).
Parlando di cose che non ho trovato
Le cose di cui lamento di più l’assenza, però, hanno a che fare con quella che trovo l’affermazione centrale della campagna:
Ok. Detta così mi pare un’affermazione non sufficientemente motivata. Anche ammettendo che il riferimento all’etica tocchi una mia idiosincrasia personale, cosa vuol dire esattamente che «coniuga cultura, etica e sostenibilità economica»? Sulla cultura non ci piove, ma che evidenze fornisce l’esperienza di Lìberos rispetto alla sostenibilità economica, croce e delizia di tutta l’economia sociale? Qual è stata sinora la performance dell’associazione? Quali i costi e i ricavi della gestione della piattaforma e di Éntula? In realtà: qual è il pezzo del modello di business dell’associazione e quale quello di Isterre che le renderebbe sostenibili, almeno nel medio o lungo periodo? La valutazione attuale a 800 000 euro di Isterre, una start-up appena costituita con capitale di 10 000 euro di cui solo 2 500 versati, è molto positiva: il che implica che il know how sviluppato da Lìberos sia così importante che i vari circuiti secondari accettino di pagare la quota iniziale una tantum e la quota associativa annuale in misura sufficiente a ripagare l’investimento iniziale, e stiamo parlando complessivamente di un milione di euro (800 000 di valutazione più i 200 000 del crowdfunding):
Il modello di business della società si basa sul versamento da parte dei soggetti interessati alla creazione di un Circuito (associazioni, fondazioni, circuiti di credito commerciale) di una quota una tantum (a fronte dell’erogazione di uno start up kit) e di una quota di abbonamento annuale, calcolate in percentuale sul fatturato.
Questo modello è credibile solo se Lìberos si è rivelata profittevole (forse: molto profittevole) e perciò si suppone che il fatturato dei futuri circuiti sarà altrettanto interessante. Ora: può darsi che mi sbagli ma non mi pare che siano mai stati resi pubblici i bilanci di Lìberos, e in mancanza di questi questa affermazione, che è di importanza cruciale non solo per il crowdfunding ma soprattutto perché tutto il resto dell’economia sociale possa guardare a Lìberos come a un apripista e un modello da imitare, rimane priva di quella sostanza che invece la renderebbe rivoluzionaria.
Parentesi: ai tempi della candidatura mi incuriosì molto una domanda rivolta da Sardinia Post a Michela Murgia sull’utilizzo del premio Che fare (il grassetto nella risposta è mio):
[…] può dirci come sono stati impiegati i 100.000 euro che avete vinto? […]
[…] L’attività culturale di Lìberos è sotto gli occhi di tutti ed è talmente evidente che è stata premiata come miglior progetto culturale italiano con i famosi 100 mila euro del premio Che Fare. Quei soldi sono – è bene ricordarlo – denari privati dell’associazione DoppioZero, non soldi pubblici, e vengono usati esclusivamente per pagare la professionalità delle persone che organizzano l’attività di Lìberos, tra le quali non ci sono io, né ci sono mai stata. Il loro uso è monitorato dall’associazione finanziatrice DoppioZero e dai consulenti dell’associazione Avanzi e i risultati sono resi periodicamente pubblici nei report che compaiono sui siti Liberos.it e DoppioZero.com.
A me vedere quei report sarebbe piaciuto molto, anche per motivazioni puramente egoistiche: è difficile avere benchmark nel settore culturale e capire costi, andamento e numeri del lavoro di un circuito come Lìberos sarebbe stato prezioso per tutte le le realtà che lavorano in Sardegna e altrove. Però, sarà anche qui che io non so come cercare, non li ho mai trovati né sul sito di Lìberos né su quello di DoppioZero. Non era un obbligo pubblicarli, ovviamente: sono soldi privati, come fece notare Michela a suo tempo. Ma nel momento in cui si chiedono altri soldi, facendo riferimento fra l’altro esattamente al premio Che Fare ricevuto, sapere che frutto hanno dato quei soldi e che risultato hanno generato avrebbe aiutato a capire l’impatto economico possibile degli euro che uno può investire tramite il crowdfunding, tanto più che in questo caso è richiesta una compromissione diretta in capitale di rischio e non un semplice voto di appoggio in una competizione on line come nel caso di Che Fare.
Il tema si ripropone specularmente non solo per il lato economico-imprenditoriale ma anche per quello relativo all’impatto sociale, che peraltro mi interessa di più. Anche io sono convinto che in generale «la collaborazione e l’adozione di buone pratiche è più conveniente sia dal punto di vita sociale che da quello economico» ma mi chiedo quali elementi di misurazione sono stati adottati per potersi spingere ad applicarla al caso specifico. «Più conveniente» vuol dire che a parità di risorse impiegate (di denaro, di tempo) io ho un tornaconto (culturale, politico, economico, relazionale) dall’adesione al circuito che è maggiore di qualunque altra scelta possibile, in particolare della non adesione al circuito. In mancanza di una valutazione di impatto – la base sarebbe il bilancio sociale, ma ci si può spingere molto oltre in termini di misurazione – l’affermazione è una verso la quale istintivamente ci sentiamo in accordo ma della quale non siamo in grado di verificare l’autenticità. Ed è davvero un peccato.
Sarebbe oltretutto interessante avere non solo un’idea del “premio di rete” che l’adesione al circuito comporta, ma anche di come questo si distribuisca fra i vari attori della filiera: ho l’impressione, per esempio, che questa distribuzione possa essere diseguale e che alcuni degli attori deboli come i librai indipendenti, dei quali peraltro anche su SmartHub si parla molto, continuino a versare in cattive acque: per esempio Lìberos nacque anche come reazione alla ventilata chiusura nel 2011 di Odradek di Sassari, che si è ripresa e poi questa estate ha chiuso definitivamente. Invece probabilmente altri, come i piccoli Comuni della Sardegna, hanno effettivamente beneficiato di un’attenzione che prima non avevano – d’altra parte, non sapendo il livello di investimento economico degli enti pubblici nel circuito e dovendo quantificare il beneficio di elementi imponderabili come la visibilità o l’attenzione mediatica è difficile capirne l’efficienza; il circuito comprende molti altri con situazioni molto diverse: associazioni culturali, case editrici, semplici lettori, ciascuno dei quali può avere avuto o non avuto dei ritorni dal circuito in maniera diversa dagli altri e insomma sembra un po’ sbrigativo risolvere tutto con uno slogan come quello citato.
La campagna di comunicazione, peraltro, è appena all’inizio: c’è tempo per spiegare meglio, nel corso della raccolta fondi, almeno alcune di queste cose e quindi convincere qualcun altro, attualmente dubbioso, ad aderire. Non ci vuole molto, in fondo: dopotutto abbiamo finanziato perfino Diario, insomma.