Di grigie uniformi e storie di rivolta
Ho visto ieri Mockingjay: il canto della rivolta, il terzo capitolo cinematografico della serie di Hunger Games.
Sul film in sé non ho molto da dire: è sostanzialmente un elemento di passaggio in attesa del pitepumfete e sbadabam drammatico e strappalacrime che sicuramente costituirà il finale della saga.
L’unica osservazione interessante mi sembra che questo capitolo conferma una cosa che penso da tempo – pur non avendo ancora letto i libri, basandomi cioè solo sugli adattamenti cinematografici – e che ho anche detto in Mondi che funzionano: che il mondo della Collins ha dei grossi problemi costitutivi che sinora la scrittrice aveva risolto facendo ricorso a due onorate tradizioni letterarie: da una parte quella di accelerare il ritmo non lasciando al lettore il tempo di ragionare sulle incongruenze, dall’altra quella di restringere il campo di osservazione escludendo tutto il contorno o lasciandolo comunque sullo sfondo. L’Arena assolveva ottimamente queste due funzioni, lasciando tutto il resto del mondo di Panem a costituire sostanzialmente colore locale; qui invece l’azione, che comprende sostanzialmente una guerra civile generalizzata che attraversa tutti i distretti, deve forzatamente allargarsi e il mondo perde palesemente di coerenza.
Capito tutto questo mi è rimasta libera gran parte del cervello per divagazioni varie, e l’attenzione mi si è fermata su costumi e scenografia, che in Hunger Games sono sempre stati molto curati, fino ad assumere un ruolo diegetico evidente. E facevo questa riflessione: non sono poi tante le narrazioni pop che hanno a tema una guerra di liberazione – resistenza, ribellione, guerra civile fino alla vittoria finale; sono poche e distanziate negli anni. Di fatto, anzi, l’unica che mi ricordo è Star Wars, che per la mia generazione ha fissato i canoni del tema: alleanza ribelle, covi segreti, progressiva liberazione di aree (là i pianeti, ma ci capiamo), truppe di occupazione, figure politicamente importanti che contano a livello simbolico come il possesso di un’astronave o di un corpo d’armata, contrattacchi del potere malvagio e battaglie disperate per mantenere in piedi la ribellione fino alla vittoria finale.
Guarda un po’, esattamente gli stessi materiali narrativi di Hunger Games.
Solo che il mondo di Guerre stellari è un mondo in cui bene e male, pur essendo intrecciati, sono comunque ben distinti. E la cosa si riflette nei costumi: gli Stormtrooper hanno uniformi spersonalizzanti, gli altri soldati imperiali cupe uniformi grigio antracite. I ribelli, invece, uniformi più chiare, bianche o beige, più piacevoli, fino al chiassoso arancione dei piloti stellari. È abbastanza evidente, tutto sommato, che il modello che sceneggiatori e costumisti hanno in mente è sostanzialmente la II Guerra Mondiale: i ribelli come i partigiani, l’esercito dell’Alleanza Ribelle come le armate americane che risalgono l’Europa. In uniforme, cioè con un vestito in sé spersonalizzante ma non deumanizzante – al contrario degli imperiali, le cui uniformi non a caso richiamano i nazisti, e degli altri cattivi, fra i quali non a caso abbondano elmetti che celano completamente il volto.
La cosa interessante è che in Hunger Games questo schema salta completamente. Ora: i Pacificatori richiamano esattamente gli Assaltatori Imperiali: armature bianche in kevlar ed elmetti. Del resto delle truppe di Capitol City non si vede altro, quindi supponiamo che sia la loro apparenza standard. E fanno cose terribili, da cattivi, fino a una scene che al pubblico americano deve fare un certo effetto: si vedono dei prigionieri incappucciati costretti in ginocchio, alle loro spalle un soldato col volto coperto che estrae una pistola e gli spara alla nuca. Impossibile non pensare alle esecuzioni dell’IS o di Al Qaeda.
Ok, quindi i cattivi non sono più i nazisti ma gli arabi: o meglio, il totalitarismo che si ha in mente è stato aggiornato in chiave contemporanea. Ci può stare.
E chi combatte contro questo totalitarismo? Qui c’è la sorpresa, perché i ribelli del 13° Distretto, che qui prendono il posto dell’Alleanza Ribelle, sono palesemente comunisti. Vestono uniformi scure che sembrano quelle di Guerre Stellari, ma dei cattivi. Fanno una vita comunitaria al confronto della quale quella degli spartani doveva essere un miracolo di svagatezza e indipendenza. Hanno riunioni collettive in cui il caro leader apostrofa la folla. Addirittura dopo l’orazione il leader saluta col pugno alzato chiuso. L’impressione è quella di una protagonista presa nella lotta fra totalitarismi concorrenti.
È notevole, credo. Il romanzo si muove nel campo della fantascienza distopica quindi questo tema, che non so che esito narrativo avrà, è coerente: oltretutto un argomento portante della trama è quello del ruolo degli strumenti di comunicazione nella gestione del consenso, e insomma questa cosa ci sta tutta. La domanda che mi pongo è piuttosto su cosa voglia dire questo sull’immaginario di una generazione che cresca identificando Hunger Games come una delle proprie mitologie preferite – rispetto alla mia, diciamo – e cosa questo voglia dire sul sentimento comune americano dopo anni di esportazione forzata della democrazia e di guerre molto poco giuste: spira da Hunger Games un vento di disillusione sorprendentemente forte, direi.