Ehi, non vi ho mai parlato della seconda serata del Festival delle Terre?!
In un articolo ormai vecchio mi vantavo di aver fatto una recensione quasi in diretta della prima serata dell’edizione di Cagliari del Festival delle Terre 2014. Per compensare solo oggi mi accorgo che non ho mai parlato della seconda serata, che pure aveva parecchi elementi di interesse.
Il seminario funziona sempre
Il tema principale della serata era quello della pesca e, come la sera prima, le proiezioni sono state introdotte da una tavola rotonda – o piccolo seminario – a cui partecipavano diversi protagonisti del settore: Antonio Onorati dell’Associazione Rurale Italiana in funzione di padrone di casa, Marina Monagheddu di Laore, l’Agenzia agricola della Regione, Benedetto Sechi, Pietro Contu, Antonio Fanni e un altro di cui non ho colto il nome in rappresentanza di vari gruppi di pescatori e Gruppi di Azione Costiera provenienti da diverse parti della Sardegna e infine un rappresentante degli armatori.
Forse la presenza di Onorati, che avevo incontrato la domenica precedente a Seneghe al bel seminario sullo sviluppo rurale organizzato da Comuna, mi spinge a unire i due dibattiti nel ricordo. Credo però che dipenda dal fatto che in entrambi si percepiva da un alto la competenza delle persone che intervenivano, dall’altra l’assenza, almeno per lo spettatore meno smaliziato come me, di mascheramenti tattici per portare l’acqua al proprio mulino: ciascuno ha detto quel che vede nel settore, a partire dalle proprie competenze, in maniera pacata e convincente. Uno spettacolo raro ma che mi rafforza nell’idea che il modo corretto di lavorare e sviscerare un tema è esattamente questo, con questo atteggiamento dei protagonisti.
Piccole aragoste crescono (Francesco Cabras e Alberto Molinari, Italia 2014)
Dei tre documentari proiettati prima di cena questo era senz’altro il più compiuto, anche grazie alla durata maggiore e allo sviluppo più complesso, e contemporaneamente alla fine per certi aspetti quello meno soddisfacente.
Il documentario racconta l’esperimento condotto dai pescatori di Su Pallosu in provincia di Oristano, che hanno riservato un’area della loro zona di pesca abituale al ripopolamento delle aragoste, ottenendo così di preservare la quantità e la qualità del pescato e operando una certa conversione culturale: dal pescatore predatore al pescatore quasi contadino, che ha cura del suo territorio come l’agricoltore del suo campo.
Non c’è dubbio che si tratti di un’esperienza esemplare che offre una prospettiva importantissima a tutte le altre cooperative di pescatori della Sardegna e oltre, ma il documentario sceglie di impegnarsi sulla frontiera scivolosissima del “successo”, la buona pratica secondo una certa mentalità deve per forza “vincere” per essere validata, e qui le cose si fanno un pochino complicate: perché un po’ dal documentario stesso, un po’ dal dibattito successivo, un po’ da cose che si sentono in giro per la Sardegna sembra emergere che l’esperienza possa finire per impigliarsi nelle pastoie della burocrazia regionale, dei fondi che non vengono nuovamente stanziati, della remunerazione economica che a causa di questo finisce per non arrivare nella misura che ci si augurava. Il che nel caso specifico non vuol dire, perché l’esperienza è davvero esemplare e indica la via giusta, anche se non si fosse in grado di presentarla come un’esperienza che ha davvero trasformato la cooperativa (cosa che comunque ha fatto), la vita delle persone (chissà), l’universo e tutto quanto.
Al contrario il documentario trova la sua espressione migliore quando si concentra sul lato umano, dando direttamente la parola ai pescatori e presentando due figure umane ragguardevolissime come quella di Gianni Usai, ex operaio FIAT che negli anni ’80 decide di fare la scelta di vita di tornare in Sardegna e passare dalla catena di montaggio alla barca da pesca, e del professor Angelo Cau, docente di biologia marina e mente scientifica dell’esperimento. Soprattutto Usai meriterebbe un documentario tutto per sé, ho l’impressione, ma l’obiettivo dichiarato del documentario – il committente sembrerebbe la campagna Ocean 2012 – non permette di indugiare a sufficienza.
Lampara (Raffaele Manco, Italia 2014) e Luci a mare (Stefania Muresu e Fabian Volti, Italia 2014)
I due documentari seguenti erano curiosamente avvicinati dall’avere quasi lo stesso argomento, quello della pesca con la lampara, un genere di pesca tradizionale tipico della piccola pesca costiera – dal punto di vista della’angolo visuale del Festival delle Terre si tratta di una pesca di tipo complessivamente artigianale o semiartigianale che sembra potersi adattare a comportamenti di sostenibilità più facilmente della grande pesca d’altura.
Lampara è poco più di una vignetta, che descrive una parte della giornata di un pescatore toscano. Brevissimo, vive di silenzi e suggestioni implicite e raggiunge però una bella forza poetica.
Molto più lungo e complesso è invece Luci a mare, che documenta la vita dell’equipaggio di una barca di Ponza che da marzo a ottobre si trasferisce a Porto Torres per la pesca delle sardine nel golfo dell’Asinara: l’equipaggio vive perciò a bordo per quasi otto mesi consecutivi (un tempo erano diverse le barche ponzesi che facevano questa trasferta, adesso questa è l’unica rimasta). Al Festival abbiamo potuto vedere solo un estratto del documentario: la cosa che mi ha colpito, e che anche la regista ha sottolineato, è la difficoltà tecnica nel girare in un contesto complicatissimo come quello di una barca da pesca affollata permettendo all’equipaggio di mantenere la necessaria naturalezza, una cosa non da poco. E poi il frammento che abbiamo visto suggerisce tutta una serie di altri temi, il microcosmo della convivenza forzata, l’asprezza della vita sul mare, la peculiarità in sé che ha il lavoro della pesca: mi piacerebbe davvero avere l’occasione di vedere la proiezione integrale del documentario.