“Kobane calling” di Zerocalcare: la recensione
Sono riuscito finalmente oggi a leggere con calma Kobane calling, il reportage a fumetti (l’autore preferisce definirlo storiona) che Zerocalcare ha scritto dopo essere stato a Kobane con la Staffetta romana e che è stato pubblicato la settimana scorsa con Internazionale.
Siccome la recensione in due parole potrebbe limitarsi a: “da leggere”, iniziamo con i consigli per gli acquisti. Il numero di Internazionale che conteneva l’inserto con la storia è andato esaurito in pochissimo ma la rivista lo ha ripubblicato col numero in uscita lo scorso venerdì 23 gennaio, quindi procuratevelo di corsa. Comprandolo, possibilmente, che come dice il Vangelo, l’operaio ha diritto al suo compenso (tra l’altro è disponibile in millemila formati digitali e a tutti i prezzi).
Fatta questa premessa, devo dire che mentre leggevo mi veniva voglia di scriverne, ma non tanto sui contenuti, che pure sono importanti, quanto sulla forma fumetto, che è un piano per me un po’ scivoloso essendo un semplice dilettante e quindi, insomma, a rischio di dire fesserie o semplici banalità.
Forse un po’ questa voglia di discutere dell’argomento deriva dal fatto che ho sempre seguito Zerocalcare sul blog e molto meno negli albi pubblicati in fumetteria, e quindi è per questo che mi ha colpito: magari qualcuno che l’abbia già conosciuto sulla distanza lunga si sarà già accorto da mo’ delle cose che scrivo.
E insomma, la recensione
Di chiavarde narrative
Allora, la questione è che Kobane calling è un racconto a fumetti con un impianto narrativo che più classico (e solido) non si può, un impianto quasi cinematografico: un prologo che mette il lettore in mezzo alle cose e pone la domanda principale, poi un lungo flashback che riprende la vicenda dall’inizio e affianca alla domanda di base posta nel prologo e che già è forte di per sé un altro tema altrettanto forte. Un lento costruire la tensione che arriva fino a due climax (il colloquio con la responsabile del campo e quello col profugo a duecento metri da casa sua) e prepara poi, quasi al momento di chiudere, il colpo del ko: il punto in cui tutto si ricongiunge e nel dialogo con lo stesso personaggio di fronte al quale Calcare si poneva la domanda iniziale anche il secondo tema narrativo portante trova la sua soluzione, con due pagine che a me, devo confessare, hanno fatto scattare il groppo di commozione. E c’è spazio perfino, dopo questo scioglimento, per il sottofinale di taglio epico-morale con tanto di colonna sonora portante che accompagna il pubblico fuori della sala.
Orpo, detto così poteva averla scritta Spielberg, questa storia.
È una dimostrazione notevole di abilità perché il fumetto, superficialmente, assomiglia alle strisce brevi tipiche del blog e vive dell’assemblaggio di appunti sparsi e magari un po’ effimeri – in fondo è un diario di viaggio, episodico per definizione – ulteriormente frammentati dalla struttura tipica delle gag di quella che, dopotutto, si presenta come una striscia comica: è solo prestando attenzione che si nota come tutto sia incardinato – direi addirittura inchiavardato – in un impianto in cui niente è costruito a caso.
Una macchina per esplicitare il punto di osservazione
Al gioco reciproco fra questi due ingranaggi, la solidità della struttura narrativa da una parte e la giocosità e la varietà della corteccia comica dall’altra, va aggiunto il contenuto della testimonianza, che ovviamente è una materia potenzialmente esplosiva: l’esperienza politica del Rojava, profughi, guerre, l’ISIS, eccetera. Si vede, e lui lo dice anche, che Zerocalcare era preoccupato moltissimo del rischio della retorica, ma il meccanismo che ha congegnato gli consente di risolvere questo problema: la durezza della materia è continuamente tenuta a bada dall’autoironia, dalle gag comiche, da tutto l’ambaradan tipico, l’armadillo, i personaggi presentati graficamente con gli stereotipi dei cartoni animati, i comprimari abituali di contorno e via andare. La realtà di Kobane è così, in un certo senso, versata dentro quella che definirei “una macchina per il punto di osservazione” che non la edulcora, non la nega e non gli toglie obiettività, ma evidenzia che si tratta, sempre, di qualcosa che è visto attraverso gli occhi di un osservatore, con tutti i limiti che questo inevitabilmente comporta. Ed è partire da questo specifico punto di vista che la storia può diventare emozionante e commovente senza essere retorica: perché è emozionante e commovente non “in sé” – come sarebbe se ci facessero vedere, che so, bambini ammazzati – ma per l’autore, e per noi attraverso di lui.
A servizio di questa macchina
A servizio di questa macchina c’è una cura grafica notevole. Anche qui: so’ pupazzetti, potrebbe dire qualcuno. Certo: e questa è una storia comica.
Ovviamente non è così: è la stessa dimensione di controllo molto forte che c’è sul testo – me lo vedo, Zerocalcare, a limare e limare – c’è anche sulla parte grafica, sul taglio di inquadratura delle vignette, il cui realismo volutamente documentario contrasta con la caricaturizzazione delle figure umane, che suggerisce continuamente la presenza dello sguardo dell’osservatore. C’è cioè un trapasso naturale fra gli sfondi, che sono “naturalistici”, come se presi dalle foto scattate sul luogo, e i momenti di inquadratura delle persone, dei particolari, dei visi, che presuppongono sempre, al posto del lettore, la posizione del disegnatore in quanto osservatore (quando non lo presuppongono è perché Zerocalcare ironizza su se stesso e quindi si ritrae da un punto di vista terzo, come quando fa la rana Kermit).
Linguaggi popolari
Ho visto da qualche parte in rete che è stato molto sottolineato il punto di vista del linguaggio di Kobane calling, cioè di un linguaggio fumettistico in grado di essere recepito da fasce molto diverse di lettori: è un tema che è spesso citato a proposito del successo in generale di Zerocalcare, e del resto non potrebbe vendere i numeri di copie che vende se non riuscisse a intercettare questo tipo di pubblico.
Nel caso di Kobane calling, però, il tema del linguaggio mi sembra lievemente diverso: quello che è interessante è che Zerocalcare si è costruito uno strumento non solo in grado di essere capito da lettori diversi, ma soprattutto adatto a un reportage pubblicato su un giornale come Internazionale. Il gioco quindi è duplice: da una parte mantenersi aderente al proprio pubblico abituale, dall’altra utilizzare il proprio linguaggio solito per confrontarsi alla pari con le esigenze specifiche che richiede il racconto di un’esperienza in una zona di guerra, cioè un linguaggio adatto ai reportage; non mi sembra una sfida da poco e averla vinta mi sembra testimoni di un’abilità di Zerocalcare come autore di fumetti a tutto tondo, oltre che fornire un indizio interessante di strade percorribili per tutto il mondo del fumetto italiano.
Due parole sui contenuti: l’onestà, la guerra e tutto quanto
La cosa che colpisce, nella lettura di Kobane calling, è l’estrema sincerità con la quale la storia è narrata. È per certi aspetti una roba molto cyberpunk: il fumetto, come ho cercato di dire, è molto sofisticato e adatto a più livelli di lettura, quindi deve essere apparentemente grezzo e privo di artifici, quasi un getto libero di pensieri man mano che lo spaesato Zerocalcare si immerge sempre più nella situazione del Rojava.
Il punto interessante, però, non è questo. Tutti siamo abbastanza esperti di società dello spettacolo da sapere che i registri narrativi possono essere manipolati in modo da creare la sensazione di sincerità ed onestà anche laddove non ce n’è mezza briciola, tanto più quando il racconto ha caratteristiche di impegno sociale. Kobane calling passa intatto anche all’occhio scafato perché è onesto non tanto rispetto alla realtà fattuale del Rojava, di cui tutti abbiamo notizie sparse e quindi non siamo in grado di giudicare, ma perché è onesto rispetto alle proprie premesse, che sono onerose per il narratore – detto in altri termini: non ci fa una gran figura – e perché rifiuta di rendere protagonista il narratore stesso – detto in altri termini: può darsi che ci venda i curdi, ma certamente non ci vende Zerocalcare come un eroe. E d’altra parte è così sistematicamente dubitativo di tutto, tanto più di se stesso, che non pare proprio che ci voglia vendere nulla.
Però, se proprio si vuole trovare un aspetto problematico, anche quella dei curdi è una guerra. Di autodifesa. Contro un nemico che pare più criminale che avversario “normale”. Però una guerra. E il vecchio militante pacifista che è in me, per quanto cresciuto nel mito delle brigate internazionali della guerra di Spagna e delle bande partigiane, sa che nella guerra l’obiettività diventa impossibile e l’invito a schierarsi comporta la rinuncia, in parte, all’obiettività. E quando Zerocalcare, nelle ultime pagine, sposa evidentemente la causa dei curdi in maniera militante compie un atto di compromissione che lo rende, da allora in poi, un testimone – lo dico in senso buono – sospetto.
Il che naturalmente non vuol dire che anche io non pensi che i curdi non abbiano ragione (anche nei confronti dei turchi, ma questo è un altro discorso), che la parte partigiana e militante di me non si auguri che facciano provare a quelli dell’IS un po’ della loro medicina – prima che altre parti di me intimino moderazione – e che non abbia accolto oggi con gioia la notizia della liberazione di Kobane, però segnalo quella che è in fondo un’omissione, l’unica davvero importante, di un fumetto per altri aspetti bellissimo.
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