Avventure di giochi di ruolo in villaggetti dell’Alaska (e la catena alimentare del giornalismo) – 1
Premessa: questo è un articolo di giochi di ruolo. Ma siccome sono incapace di fare le cose semplici, per arrivarci farò prima un largo giro e parlerò di giornalismo, nostrano o meno. Quindi chi è interessato ai giochi vada alla terza parte, chi è interessato a come si costruiscono le notizie si fermi alla seconda; chi ama leggere in generale si legga pure tutto, così solletica il mio ego multiforme, e in ogni caso la prima parte è comune.
Ve l’avevo detto che non sono capace di fare cose semplici.
Come fu che arrivai a Whittier, Alaska, e che posto è
Qualche giorno fa il mio amico Andrea Assorgia mi segnala sulla versione on line del Corriere un servizio dal quale si capisce che la cittadina di Whittier, in Alaska, è un posto piuttosto interessante. Qui si vede in una foto che ho preso dal sito ufficiale del Comune:
È un solo palazzo, ma non è che mi sono sbagliato: la cittadina è praticamente tutta là. Infatti l’articolo del Corriere si intitola Whittier, la città dove tutti vivono sotto lo stesso tetto.
Costruita nel ’43 come base navale degli Stati Uniti per la guerra nel Pacifico (il suo porto è sicuro e profondo e non gela mai), è stata abbandonata dai militari negli anni ’60 ed è da allora abitata da più o meno duecento civili che vivono quasi tutti in quell’unico grande edificio (un’ex caserma). Whittier è tutta compresa in questa specie di grattacielo, più un po’ di garage e capannoni, le attrezzature del porto all’intorno e un’altra grande struttura in abbandono che era la caserma gemella della costruzione ancora in uso e che ora, sebbene in rovina, non si può demolire definitivamente perché costerebbe troppo e sarebbe troppo difficile portare via i detriti.
Perché Whittier, oltre che piccola, è davvero isolata. Tanto per cominciare è in Alaska, che non è proprio il centro del mondo. E poi per raggiungerla occorre o arrivare via mare oppure percorrere in auto o treno la più lunga galleria degli Stati Uniti (circa due miglia e mezzo, o quattro chilometri: Wikipedia non si spreca nemmeno a elencare le gallerie stradali più corte di cinque chilometri). Siccome è a senso unico, passano alternativamente le auto in un senso (alla mezz’ora) e nell’altro (all’ora). Quando arriva il treno si blocca tutto e devi aspettare l’ora o la mezzora seguente, e in ogni caso alle undici di notte la galleria viene chiusa, di fatto sigillando la città fuori dal mondo esterno: se sei andato a Anchorage, ad appena cento chilometri, per una cenetta romantica e perdi l’ultimo accesso rischi di dover dormire in macchina, cosa che in Alaska, orsi a parte, non dev’essere comodissima.
In ogni caso tutto questo vale principalmente d’estate quando c’è anche molto afflusso turistico, per la caccia e la pesca, come intermezzo in una crociera, per le bellezze naturali e anche per visitare il ghiacciaio.
Ghiacciaio?
Stavo per dirlo. Siamo in Alaska e fa freddo tutto l’anno: ma d’inverno cade parecchia neve e soffiano venti fino a cento chilometri orari. Per andare a scuola gli scolari prendono una galleria costruita apposta, per il resto i duecento abitanti devono uscire pochissimo di casa (che, come abbiamo visto, corrisponde più o meno a “uscire dai confini della città”): infatti l’ufficio postale e la stazione di polizia sono nell’androne d’ingresso, la scuola al primo piano, il bed & breakfast al sesto piano, nel garage sotterraneo hanno montato una piscina gonfiabile e la chiesa è in una ex saletta di riunioni in fondo al corridoio. E il resto funzionerà più o meno così: se ti sei dimenticato di andare all’anagrafe per ritirare un certificato di residenza probabilmente dopo cena vai dall’impiegato nell’appartamento di fronte, ti prendi un caffè e già che ci sei sbrighi la tua pratica. Se proprio è complicato ti toccherà farlo vistare dal capufficio, nel lontanissimo corridoio della scala a fianco.
Un posto fighissimo, insomma, e appena letta questa storia mi sono venuti in mente mille modi per sfruttarlo come ambientazione di storie per giochi di ruolo.
Ma prima…
Giornalismo e catene alimentari
Insomma, mi sono chiesto: com’è che il Corriere ne ha parlato? Oltretutto con una galleria fotografica di immagini dichiaratamente “prese da Flickr“, che non è proprio il massimo del rispetto del diritto d’autore (che non sembra un tema, comunque, sempre in cima alle preoccupazioni del Corriere).
Cioè, voglio dire: com’è che al Corriere viene in mente di fare un servizio proprio su una sperduta cittadina dell’Alaska, per interessante che possa essere? Dove prendono la notizia? Magari l’autore dell’articolo, Elmar Burchia, sta lì a girare Flickr, trova delle belle foto e ci fa l’articolo?
Parentesi: cercando la risposta ho scoperto tutto un mondo che riguarda Elmar Burchia, i cui articoli hanno un loro seguito affezionato anche se non proprio benevolo e perfino un Tumblr dedicato; del resto in passato ha suscitato rampogne varie, comprese quelle di .mau.; vedo comunque in rete che alcuni sostengono che non esista ma sia solo un comodo pseudonimo per quei giornalisti o stagisti del Corriere addetti a riempire la famigerata colonna di destra.
Ma torniamo a Whittier. In realtà la cosa interessante è che mi sono accorto che praticamente lo stesso giorno del Corriere anche l’Huffington Post ha pubblicato praticamente lo stesso articolo: ha messo un po’ meno foto, ha aggiunto un video (preso da YouTube), si è preso la briga di non tradurre letteralmente il titolo ma di rielaborarlo, ma la fonte è evidentemente la stessa. E va bene che la suddetta colonnina di destra va comunque riempita, ma possibile che i siti di due importanti organi di informazione la riempiano allo stesso modo nello stesso momento? Perché un po’ ti fa l’impressione, che se è così basta che ci sia qualcuno, chissà dove, che preme il pulsante – come quelli che negli allevamenti aprono la mangiatoia automatica agli animali – e tutti automaticamente riceviamo la stessa informazione (ben arrivato, Roberto).
Incuriosito ho provato a risalire la corrente delle notizie e quel che emerge è una specie di catena alimentare dell’informazione.
Tutto inizia, per esempio, con un fotografo professionista, Reed Young (davvero bravo, e sul suo sito si scopre che ha fatto qualcosa anche in Italia, come un servizio sui doppiatori cinematografici) che se ne va a fare un servizio a Whittier: e c’ha ragione, perché fa delle belle foto, come quella che segue. E siamo a fine 2012.
Tutto inizia, per esempio, con un blogger che, chissà come e perché, fa un articolo sulla caserma in rovina di Whittier e usa per primo il termine “la città sotto un unico tetto”. Lo fa a bella posta, perché quella doveva essere una caserma modello ed era pubblicizzata con questo slogan. E siamo a febbraio 2013.
Nel frattempo la gente in questo posto ci vive davvero, fa cose normali che si fanno ovunque, e quindi fra le altre cose produrre notizie. Ad Anchorage c’è un gruppo di giornalisti di base, Indie Alaska, che produce un video su Whittier (guardatelo, è interessante), documentando la vita dell’unica insegnante del paese (è il video riproposto dall’Huffington Post). E siamo a ottobre 2013.
Magari qualcuno è stimolato dalla cosa, magari pescando per caso questa notizia a qualcuno viene l’idea di usarla come spunto per un lavoro creativo. Come Jen Kinney, un’altra fotografa, che nel 2014 fa una mostra personale intitolata City under one roof (cioè appunto la città sotto un unico tetto). Anche la Kinney è una brava fotografa, e il suo sito merita di essere visitato.
Oppure come la redazione di Atlas Obscura, che più o meno nello stesso periodo dedica un servizio al famoso tunnel di accesso alla cittadina.
E siamo arrivati al 2014. Il circuito mediatico è stato abbastanza alimentato, e può mettersi in moto.
Il California Sunday Magazine compra il servizio realizzato da Reed Young e dalla collega Erin Sheey due anni prima e lo pubblica ai primi di gennaio di quest’anno (guardatelo: la pubblicazione a tutta pagina rende un gran merito alle foto di Reed).
I due autori vengono intervistati dal circuito radiofonico NPR. Il sito di riferimento di NPR perciò ci fa sopra un articolo, che riprende alcune delle foto di Reed a corredo dell’audio, mentre il servizio Vocalook pubblica la trascrizione e nuovamente l’audio dell’intervista. Entrambi questi pezzi escono il 18 gennaio e fissano il titolo Community under one roof, che il California Sunday non aveva usato.
Nel frattempo è il rotocalco Gizmodo a diffondere la notizia nella corrente mainstream. Dato che le foto di Reed sono concesse presumibilmente in esclusiva all’altra rivista, utilizzano quelle di Jen Kinney e altre prese da Flickr (ma con attribuzioni puntuali a ogni singolo autore) a corredo di un bell’articolo che espande le informazioni testuali pubblicate sinora, grazie a un lavoro di ricerca e anche a un’intervista alla stessa Kinney, e che riprende anche il video di Indie Alaska. È un articolo derivativo – sono arrivati secondi sulla notizia, e cambiano il titolo in Town living under one roof – ma è comunque un lavoro serio, che curiosamente non viene ripreso, se non ho visto male, dalla versione italiana della rivista.
Dopo di che si fa, come avrebbe detto Melchiorre Murenu, a s’afferra afferra. Se guardate su Google trovate mille siti che riprendono la notizia, grazie anche alla diffusione in sindacato della NPR. Qualcuno fa un suo lavoro di riscrittura, come il sito australiano news.com.au, che si va a recuperare Atlas Obscura, ma per la maggior parte si vede bene che è davvero una specie di catena di montaggio: l’ingrediente di base è stato inserito nei macchinari, è stato lavorato, rilavorato, poi man mano i resti vengono rimasticati all’infinito dai laboratori minori. In questa specie di catena di montaggio, o alimentare, i siti italiani sono in fondo, molto in fondo: non tanto in termini temporali – io9, che è un sito abbastanza importante, è arrivato alla notizia solo ieri – ma perché mostrano pochissima cura nella presentazione della notizia e non citano la fonte del flusso di informazioni.
A giocarci su ci pensiamo domani
Mi pare che qui l’articolo si è fatto lungo. La seconda parte, quella sui giochi di ruolo, a domani (pensateci su, chissà se le idee che vi vengono sono simili alle mie). Nel frattempo con tutte i siti che ho linkato c’è tempo per documentarsi e lasciare andare l’immaginazione dietro le foto.