Un tweet di troppo
L’articolo che segue è stato pubblicato dal New York Times nei giorni scorsi. Parla di social, di modi di esprimere se stessi sulla rete, di stupidità, di campagne d’odio mascherate da giustizia, di politicamente corretto e dell’influenza molto concreta che tutto ciò può avere sulla vita delle persone: non potevo non tradurlo!
L’autore dell’articolo è è Jon Ronson. Le immagini a commento sono prese dalla rete. Parte dell’articolo ruota sul concetto di shaming, un verbo inglese che deriva da shame, “vergogna”, e che ho tradotto con “mettere alla gogna” o espressioni simili.
Dell’argomento ha parlato anche Il Post, parafrasando parte dell’articolo originale e aggiungendo la precisazione, che io non avevo colto, che si tratta di una capitolo in anteprima di un libro di Ronson in corso di pubblicazione.
Come uno stupido tweet ha fatto saltare per aria la vita di Justine Sacco
di Jon Ronson
Durante il lungo viaggio da New York verso il Sudafrica per andare a trovare la famiglia durante le vacanze del 2013, Justine Sacco, 30 anni, direttore delle comunicazioni aziendali alla IAC, cominciò a twittare acide piccole battute riguardo alle scomodità del viaggio, Ce n’era una riguardo a un compagno di viaggio sul volo dall’aeroporto internazionale John F. Kennedy:
“Strano tizio tedesco: sei in prima classe. È il 2014. Procurati del deodorante”. – Monologo interiore mentre respiro sudore. Grazie a Dio per i sonniferi.
Poi, durante la sosta a Heathrow:
Gelido – sandwich al cetriolo – denti cariati. Di nuovo a Londra!
E il 20 dicembre, prima dell’ultima tappa del suo viaggio verso Città del Capo:
Vado in Africa. Spero di non prendermi l’AIDS. Scherzo: sono bianca!
Ridacchiò con se stessa mentre schiacciava l’invio su questo ultimo messaggio, poi vagabondò per la sala partenze internazionali di Heathrow per mezz’ora, mentre controllava sporadicamente il telefono. Nessuno replicò, cosa che non la sorprese. Aveva solo 170 seguaci su Twitter.
Sacco salì a bordo. Era un volo di undici ore, così dormì. Quando l’aereo atterrò a Città del Capo e stava rullando sulla pista accese il telefono. Immediatamente le arrivò un messaggio da qualcuno che non aveva sentito dall’epoca della scuola superiore: «Mi dispiace di vedere quel che sta accadendo». Sacco lo lesse, perplessa.
Poi un altro messaggio: «Chiamami immediatamente». Proveniva dalla sua migliore amica, Hannah. Poi il suo telefono esplose con altri messaggi e avvisi. E poi squillò. Era Hannah. «Sei la prima tendenza mondiale su Twitter proprio adesso», le disse.
Il flusso di tweet del profilo di Sacco era diventato un circo dell’orrore. «Considerato il tweet disgustosamente razzista di @JustineSacco, ho deciso di fare una donazione a @care» e «Come ha fatto @JustineSacco a avere un lavoro nelle pubbliche comunicazioni?! Il suo livello di ignoranza razzista è roba da Fox News. Chiunque può prendersi l’#AIDS!» e «Io sono un dipendente della IAC e non voglio che @JustineSacco si occupi di comunicazione per noi mai più. Mai». E poi uno del suo datore di lavoro, IAC, la società proprietaria di The Daily Beast, OkCupid e Vimeo: «Questo è un commento oltraggioso, razzista. Il dipendente in questione attualmente irraggiungibile su un volo internazionale». L’ira si trasformò presto in eccitazione: «Tutto quel che voglio per Natale è vedere la faccia di @JustineSacco quando l’aereo atterra e e lei controlla la segreteria» e «Gente, @JustineSacco sta per avere il più doloroso momento di riaccensione del telefono di sempre quando l’aereo atterra» e «Stiamo per vedere questa stronza di @JustineSacco licenziata. In tempo REALE. Prima che lei stessa SAPPIA di essere licenziata».
L’indignazione riguardo al tweet di Sacco era diventata non solo una crociata ideologica contro la sua supposta intolleranza ma anche una forma di ozioso divertimento. La sua completa ignoranza della sua pericolosa situazione per quelle undici ore dava all’episodio sia una ironica drammaticità che un piacevole andamento narrativo. Mentre il volo di Sacco attraversava l’intera lunghezza dell’Africa iniziò a diffondersi un hashtag globale: #ÈgiàAtterrataJustine. «Davvero. Vorrei solo andare a casa a dormire, ma tutti al bar sono COSÌ presi da #ÈgiàAtterrataJustine. Non posso guardare altrove. Non posso andarmene» e «E dai, non c’è nessuno a Città del Capo che possa andare all’aeroporto a twittare il suo arrivo? Dai, Twitter! Voglio le foto #ÈgiàAtterrataJustine».
Un utente di Twitter in effetti si recò all’aeroporto per twittare il suo arrivo. Fece una foto e la inviò sulla rete. «Yup», scrisse, «@JustineSacco È effettivamente atterrata a Città del Capo Internazionale. Ha deciso di mascherarsi con occhiali da sole».
Al momento in cui Sacco prese terra, decine di migliaia di tweet irati erano stati inviati in risposta alla sua battuta. Hannah nel frattempo aveva disperatamente cancellato il profilo e il tweet dell’amica – Sacco non voleva guardare – ma era di gran lunga troppo tardi. «Spiacenti @JustineSacco», scrisse un utente di Twitter, «il tuo tweet vive per sempre».
Nei primi giorni di Twitter, amavo mettere la gente alla gogna. Quando un editorialista di giornale faceva dei commenti razzisti o omofobi io mi aggiungevo all’ammucchiata. Qualche volta la iniziavo. Il giornalista A.A. Gill una volta scrisse un articolo riguardo allo sparare a un babbuino durante un safari in Tanzania: «Mi dicono che sono difficili da prendere. Corrono su per gli alberi, si afferrano alla vita fino all’ultimo. Muoiono con difficoltà, i babbuini. Ma non questo. Una palla a espansione calibro .357 gli ha fatto esplodere i polmoni». Gill fece quell’impresa perché «voleva avere un’impressione di come poteva essere uccidere qualcuno, uno sconosciuto».
Fui fra i primi a allertare i social (questo perché Gill recensiva negativamente i miei documentari per la TV, così avevo la tendenza a tenere gli occhi aperti su cose su cui lo si poteva beccare). In pochi minuti, era dappertutto. Fra le centinaia di messaggi di congratulazioni che ricevetti, uno spiccava: «A scuola eri un bullo?»
Eppure, in quei primi giorni, la furia collettiva pareva giusta, potente ed efficace. Sembrava come se le gerarchie venissero smantellate, come se la giustizia venisse democratizzata. Man mano che il tempo passava, tuttavia, ho visto queste gogne mediatiche moltiplicarsi fino al punto di prendere a bersaglio non solo istituzioni potenti e figure pubbliche ma praticamente chiunque sembrasse avere fatto qualcosa di offensivo. Iniziai anche a meravigliarmi della cesura fra la gravità del crimine e l’avida ferocia della punizione. Sembrava quasi che le messe alla gogna avessero ora fine in sé, come se seguissero una sceneggiatura.
Alla fine iniziai a farmi domande riguardo ai destinatari delle nostre campagne, gli esseri umani reali che erano i bersagli virtuali di queste campagne. Così per gli scorsi due anni ho intervistato persone come Justine Sacco: gente comune brutalmente esposta al pubblico ludibrio, nella maggior parte dei casi per aver postato sui social media qualche battuta sconsiderata. Ogni volta che era possibile li ho incontrati di persona, per pesare realmente il carico emozionale dall’altra parte dei nostri schermi. Le persone che ho incontrato erano per lo più disoccupate, licenziate per le loro trasgressioni, e sembravano in qualche modo spezzate – profondamente confuse e traumatizzate.
Una persona che ho incontrato è stata Lindsey Stone, una donna di trentadue anni del Massachusetts che si fece fare una fotografia in una posa ironica davanti a un cartello presso la tomba del Milite Ignoto al Cimitero Nazionale di Arlington. Stone era in piedi vicino al cartello, che chiedeva «Silenzio e rispetto», fingendo di gridare e facendo il gesto del dito medio. Lei e la sua collega Jamie, che pubblicò la foto su Facebook, avevano uno scherzo permanente in corso sul disobbedire ai segnali – fumare di fronte a un cartello «Vietato fumare», per esempio – e documentarlo. Ma fuori del contesto la sua foto sembrava una presa in giro non del cartello ma dei caduti in guerra. Peggio ancora, Jamie non si rese conto che i suoi scatti dal cellulare erano visibili al pubblico in generale.
Quattro settimane dopo, Stone e Jamie erano in giro a festeggiare il compleanno di Jamie quando i loro telefoni presero a vibrare in continuazione. Qualcuno aveva trovato la foto e l’aveva portata all’attenzione di orde di sconosciuti sulla rete. Presto ci fu una pagina di Facebook follemente popolare, Licenziate Lindsey Stone. La mattina dopo c’erano le telecamere fuori di casa sua; quando si presentò al lavoro, a un centro di assistenza per adulti handicappati, le venne detto di riconsegnare le chiavi («Dopo che la licenziano forse dovrebbe iscriversi come cliente», era scritto in uno delle migliaia di messaggi di Facebook che la accusavano. «Quella donna ha bisogno di aiuto»). Uscì a malapena di casa per tutto l’anno che seguì, tormentata da stress post traumatico, depressione e insonnia. «Non volevo essere vista da nessuno», mi ha detto lo scorso mese di marzo nella sua casa di Plymouth, nel Massachusetts. «Non volevo che le persone mi guardassero».
Invece Stone passò i suoi giorni sulla rete, a osservare altri proprio come lei che divenivano oggetto di aggressione. Le dispiacque in particolare per «quella ragazza che a Halloween si vestì come una vittima della maratona di Boston. Mi sentii così male per lei». Intendeva Alicia Ann Lynch, ventidue anni, che postò su Twitter una foto di se stessa col suo costume di Halloween. Era vestita come per una corsa e si era imbrattata faccia, braccia e gambe con falso sangue. Dopo che una vera vittima dell’attentato alla maratona di Boston le twittò: «Dovresti vergognarti, mia madre ha perso le gambe e io sono quasi morta», qualcuno scoprì i dati personali di Lynch e mandò a lei e ai suoi amici messaggi di minaccia. Anche Lynch, a quanto si sa, perse il lavoro.
Ho incontrato un uomo che, nei primi mesi del 2013, si trovava a un seminario per programmatori a Santa Clara, in California, quando gli venne in mente una stupida freddura. Riguardava le connessioni per computer e terminali mobili che sono comunemente chiamate dongle [sfortunatamente, dongle (e dong) è anche gergale per l’organo sessuale maschile, NdRufus; in italiano è genericamente “pennina” e non si correrebbero rischi]. Fece la battuta sottovoce all’amico seduto al suo fianco. Mi ha detto: «Era così brutta che non ricordo neppure le parole esatte. Qualcosa a proposito di un elemento di hardware immaginario che era in realtà un enorme dongle, un dongle assurdo… non era neanche detto a voce normale».
Qualche istante dopo, notò a malapena una donna una fila davanti a lui alzarsi, girarsi e fare una foto. Pensava che stesse facendo una ripresa della sala, così guardò fisso davanti a se, per non rovinarle la foto. È un po’ doloroso guardare la foto ora, sapendo ciò che stava per accadere.
La donna aveva, in realtà, sentito la battuta. La considerò emblematica dello squilibrio di genere che piaga il settore tecnologico e della cultura aziendale tossica e maschilista che ne deriva. Twittò la foto ai suoi 9209 seguaci con la didascalia: «Non figo. Battute su… “grandi” dongles proprio dietro di me». Dieci minuti dopo, l’uomo e il suo amico vennero portati un una stanza tranquilla e gli venne chiesto di dare spiegazioni. Due giorni dopo il suo capo lo chiamò nel suo ufficio e venne licenziato.
«Misi tutta la mia roba in una scatola», mi disse (come Stone e Sacco, non aveva mai prima di allora raccontato ufficialmente cosa gli era successo. Mi parlò sotto condizione di anonimato per evitare di danneggiare ulteriormente la sua carriera). «Uscii fuori per chiamare mia moglie. Non sono tipo da spargere lacrime ma» – fece una pausa – «quando salii in auto con mia moglie io proprio… ho tre figli. Essere licenziato è stato terrorizzante».La donna che scattò la foto, Adria Richards, sperimentò presto l’ira della folla lei stessa. L’autore della battuta sul dongle aveva scritto riguardo al perdere il lavoro su Hacker News, un forum online popolare fra programmatori. Questo condusse a un’ondata di ritorno dall’estremo opposto dell’arco politico. Presunti attivisti dei diritti degli uomini e troll anonimi bombardarono Richards su Twitter e Facebook con minacce di morte. Qualcuno twittò l’indirizzo di casa di Richards assieme a una foto di una donna decapitata imbavagliata con del nastro da pacchi. Preoccupata per la sua vita abbandonò la sua casa per dormire sui divani degli amici per il resto dell’anno.
A quel punto il sito del suo datore di lavoro cadde. Quacuno aveva lanciato un attacco DDos, che travolge le difese di un sito con richieste ripetute. A SendGrid, il suo datore di lavoro, venne detto che gli attacchi si sarebbero fermati se Richards fosse stata licenziata. Il giorno successivo fu pubblicamente espulsa.
«Ho pianto molto durante quel periodo, ho tenuto un diario e sono evasa guardando film», mi ha poi scritto in una mail. «SendGrid mi ha gettata sotto l’autobus. Mi sentivo tradita. Mi sentivo abbandonata. Mi sentivo messa alla berlina. Mi sentivo respinta. Mi sentivo sola».
Un tardo pomeriggio dello scorso anno ho incontrato Justine Sacco a New York, in un ristorante di Chelsea chiamato Corkshop. Vestita con un abito da ufficio piuttosto chic, Sacco ordinò un bicchiere di vino bianco. Erano passate solo tre settimane dal suo viaggio in Africa, ed era ancora una persona di interesse per i media. I siti web avevano già saccheggiato il suo profilo Twitter per altri orrori (per esempio: «La notte scorsa ho avuto un sogno erotico su un ragazzo autistico», del 2012, fu dissotterrato da Buzzfeed nell’articolo «Sedici tweet che Justine Sacco rimpiange»). Un fotografo del New York Post l’aveva seguita in palestra.
«Solo un pazzo penserebbe che i bianchi non si prendano l’AIDS», mi ha detto. È stata più o meno la prima cosa che mi ha detto quando ci siamo seduti.
Sacco era decollata da circa tre ore quando i retweet della sua battuta iniziarono a sommergere il mio profilo Tweet. Potevo capire perché certi lo trovassero offensivo. Preso alla lettera, diceva che i bianchi non prendono l’AIDS, ma sembra dubbio che molti l’abbiano interpretato a quel modo. Più probabilmente era il suo apparentemente spensierato esibire i suoi privilegi che ha irritato le persone. Ma dopo aver riflettuto sul suo tweet per qualche secondo di più iniziai a sospettare che non fosse razzista, ma una critica di riflesso dei privilegi dei bianchi – della nostra tendenza a immaginarci ingenuamente immuni dagli orrori della vita. Sacco, come Stone, era stata strappata violentemente fuori dal contesto del suo piccolo cerchio sociale. Giusto?
«Per me era così folle per chiunque come commento da fare», mi disse. «Io pensavo che non ci fosse modo che chiunque potesse pensare di prenderlo alla lettera» (in seguito, mi scrisse una mail per approfondire questo punto: «Sfortunatamente, non sono un personaggio di South Park o un comico, quindi non toccava a me fare commenti sull’epidemia in un modo così politicamente scorretto su una piattaforma pubblica», mi scrisse. «Per dirla con semplicità, non stavo provando a innalzare la consapevolezza dell’AIDS o a far incazzare il mondo o rovinare la mia vita. Vivere in America ci pone in una specie di bolla per quanto riguarda quel che succede nel Terzo Mondo. Io stavo ironizzando su quella bolla»).
Sarei stato la sola persona con cui parlò ufficialmente di quel che le era successo, mi disse. Era davvero troppo straziante – e, come pubblicitario, sconsigliabile – ma sentiva che era necessario, per mostrare quanto “folle” fosse la sua situazione e come la punizione semplicemente non fosse commisurata al crimine.
«Ho pianto il mio peso in lacrime nelle prime ventiquattr’ore. È stato incredibilmente traumatico. Non dormi. Ti svegli nel mezzo della notte senza ricordare dove sei». Rilasciò una dichiarazione di scuse e abbreviò la sua vacanza. Negli hotel dove aveva prenotato i lavoratori minacciavano di entrare in sciopero se si fosse fatta vedere. Le venne detto che nessuno poteva garantire la sua sicurezza.
La sua ampia famiglia, in Sudafrica, erano sostenitori dell’African National Congress – il partito di Nelson Mandela. Erano da tempo attivisti dell’eguaglianza razziale. Quando Justine arrivo a casa dall’aeroporto, una delle prime cose che sua zia le disse fu: «Questo non è ciò per cui è schierata la nostra famiglia. E ora, per associazione, hai quasi macchiato la famiglia».
Quando mi disse questo, Sacco iniziò a piangere. Rimasi seduto a guardarla per un momento. Poi tentai di migliorare l’atmosfera. Le dissi che «talvolta, le cose devono raggiungere un brutale nadir prima che le persone vedano la ragione».
«Wow», mi disse. Si asciugò gli occhi. «Di tutte le cose che avrei potuto essere nella coscienza collettiva sociale, non ho mai pensato che avrei potuto finire come un brutale nadir».
Guardò l’orologio. Erano quasi le sei di sera. La ragione per la quale voleva incontrarmi in questo ristorante, e per la quale indossava abiti da affari, era che era a pochi isolati di distanza dal suo ufficio. Alle sei doveva presentarsi per svuotare la scrivania.
«D’improvviso non sai cosa si suppone che tu faccia», disse. «Se non inizio a fare dei passi per riprendermi la mia identità e ricordare a me stessa quotidianamente chi sono, rischio di perdermi».
La maitre si avvicinò. Si sedette vicino a Sacco, la guardò in maniera significativa e le disse qualcosa in un tono così basso che non riuscii a sentire, solo la risposta di Sacco: «Oh, pensi che ti sarò grata per questo?».
Concordammo di incontrarci di nuovo, ma non prima di diversi mesi. Era intenzionata a dimostrare che poteva rimettere in sesto la sua vita. «Non posso semplicemente stare a casa e guardare film tutti i giorni e piangere e dispiacermi per me stessa. Voglio tornare a galla».
Mi raccontò più tardi che quando se ne andò non riuscì ad arrivare fino all’ingresso del suo ufficio senza mettersi a piangere.
Qualche giorno dopo il mio incontro con Sacco, feci una gita all’Archivio del Massachussets di Boston. Volevo scoprire qualcosa riguardo all’ultima epoca della storia americana nella quale il mettere alla berlina la gente era una forma comune di punizione, così ero alla ricerca dei verbali dei tribunali del XVIII e primo XIX secolo. Presumevo che la fine delle punizioni pubbliche fosse stata causata dalla migrazione dai villaggi alle città. La berlina divenne inefficace, pensavo, perché la persona alla gogna poteva semplicemente perdersi in mezzo alla folla anonima appena fosse terminata l’esecuzione. La modernità aveva diminuito il potere della vergogna di umiliare – o così presumevo.
Presi posto al lettore di microfilm e iniziai a scorrere lentamente gli archivi. Per i primi cento anni, per quanto potevo capire, tutto quel che era successo in America era che vari tizi di nome Nathaniel avevano acquistato terre presso dei fiumi. Scorsi più velocemente e alla fine arrivai al resoconto di una antica messa alla berlina dell’era coloniale.
Il 15 luglio 1742 una donna chiamata Abigail Gilpin, mentre il marito era in mare, era stata trovata «nuda a letto con un certo John Russell». Essi dovevano essere entrambi «frustati al palo delle fustigazioni con venti colpi ciascuno». Abigail presentava appello, ma non era la fustigazione in sé che sperava di evitare. Implorava il giudice di essere fustigata presto, prima che la città si svegliasse. «Se vostro onore vuol compiacersi», scriveva, «abbia pietà di me per i miei cari figli che non possono subire le mancanze della loro sfortunata madre».
Non è stato registrato se il giudice abbia accolto la sua richiesta, ma ho trovato un certo numero di estratti che offrono degli indizi sul perché potrebbe avere richiesto una punizione privata. In un sermone, il Reverendo Nathan Strong di Hartford, Connecticut, invitava il suo gregge a essere meno esuberante alle esecuzioni. «Non andate a quel luogo di orrore con animo lieto e cuori festanti, perché là è la morte. Là sono la giustizia e il giudizio!». Alcuni giornali pubblicavano resoconti caustici quando le punizioni pubbliche erano considerate troppo benevole dalla folla: «Mormorii negativi… furono espressi da molti», riportò il Wilmington Daily Commercial del Delaware a proposito di una fustigazione insoddisfacente del 1873 [sic, NdRufus]. «Si sentì dire da molti che la punizione era stata una farsa… Liti fra ubriachi e risse seguirono rapidamente».
Il movimento contro la messa alla berlina aveva preso slancio nel 1787 quando Benjamin Rush, un medico di Philadelphia e uno dei firmatari della Dichiarazione di Indipendenza, scrisse un articolo che invitava alla sua eliminazione – il ceppo, la gogna, il palo delle fustigazioni, il tutto. «L’ignominia è universalmente riconosciuta come una punizione peggiore della morte», scrisse. «Sembrerebbe strano che l’ignominia possa essere stata adottata come una forma di punizione più lieve della morte, se non sapessimo che la mente umana raramente arriva alla verità su una qualunque materia se non ha prima raggiunto l’estremità dell’errore».
La gogna e le fustigazioni vennero abolite a livello federale nel 1839, sebbene il Delaware tenne la gogna fino al 1905 e le fustigazioni fino al 1972. Un editoriale del 1867 del Times rampognava lo stato per la sua ostinazione. «Se [la persona condannata] aveva prima nel petto una scintilla di autostima questa esposizione al pubblico ludibrio la spegne definitivamente… il ragazzo diciottenne che è frustato a New Castle per dei furtarelli è in nove casi su dieci rovinato. Con il rispetto per se stesso distrutto e lo scherno e lo sprezzo della vergogna pubblica impressi sulla fronte, si sente solo e abbandonato dai suoi simili».
All’archivio non trovai prove che la messa alla berlina punitiva passò di moda come effetto di un anonimato appena ottenuto. Ma trovai moltissime persone dai secoli passati che lamentavano la crudeltà sproporzionata della pratica, ammonendo che persone bene intenzionate, in una folla, spesso spingono la punizione troppo oltre.
È possibile che il destino di Sacco sarebbe stato differente se una soffiata anonima non avesse condotto uno scrittore di nome Sam Biddle al tweet incriminato. Biddle era il redattore di Valleywag, il blog dedicato alla tecnologia di Gawker Media. Lo ritwittò ai suoi 15000 seguaci e alla fine lo pubblicò su Valleywag, sotto il titolo: «E ora, una piacevole freddura vacanziera dal responsabile delle pubbliche relazioni di IAC».
Nel gennaio 2014 ricevetti una mail da Biddle, che spiegava il suo ragionamento. «Il fatto che fosse il capo delle pubbliche relazioni lo rendeva squisito», scrisse. «È soddisfacente essere in grado di dire: “Ok, facciamo sì che un tweet razzista di un dirigente IAC conti, questa volta”. E lo ha fatto. Io farei tutto di nuovo». Biddle disse di essere rimasto tuttavia sorpreso al vedere come rapidamente la vita di lei venisse travolta. «Non è che mi sveglio e spero [di far licenziare qualcuno] quel giorno – e certamente non spero mai di rovinare la vita di nessuno». In ogni caso concluse la sua mail dicendo che aveva la sensazione che lei sarebbe «stata bene alla fine, se non già ora».
Aggiunse: «La finestra di attenzione di tutti è davvero corta. Saranno infuriati per qualcos’altro di nuovo già oggi».
Quattro mesi dopo il nostro primo incontro, Justine Sacco mantenne la sua promessa. Ci incontrammo per pranzo in un bistrot francese del centro. Le riferii quel che aveva detto Biddle – sul fatto che sarebbe stata probabilmente a posto, ora. Ero sicuro che non cercava di essere intenzionalmente sfacciato, ma come chiunque che partecipi nella distruzione di massa sulla rete, disinteressato a sapere che questo comporta dei costi.
«Bene, non sono ancora a posto», mi disse Sacco. «Avevo una bella carriera, amavo il mio lavoro e me l’hanno tolto, e comportava un sacco di gloria. E tutti sono stati contenti».
Sacco pasticciava col cibo nel piatto, e mi mise a parte dei costi nascosti della sua esperienza. «Sono single, e quindi non è che posso uscire con qualcuno, perché tutti googlano chiunque con cui possano avere un appuntamento. Mi hanno tolto anche quello». Era giù, ma notai un cambiamento positivo. Quando ci eravamo visti la prima volta parlava della vergogna che aveva attirato sulla sua famiglia. Ma non si sentiva più così. Invece, mi disse, si sentiva solo personalmente umiliata.
Biddle aveva quasi ragione su una cosa: Sacco aveva subito ricevuto una proposta di lavoro. Ma era strana, dal proprietario di una società di crociere su yacht della Florida. «Mi ha detto: “Ho visto quel che ti è successo. Sono del tutto dalla tua parte», mi raccontò. Sacco non sapeva niente di yacht, e aveva dubbi sulle sue motivazioni («era un pazzo che pensava che i bianchi non possono prendersi l’AIDS?»). Alla fine rifiutò.
Dopo di che lasciò New York e andò più lontano che poteva, ad Addis Abeba in Etiopia. Volò lì da sola e ottenne un lavoro volontario nelle pubbliche relazioni per una ONG che lavorava nel ridurre i tassi di mortalità a seguito di gravidanza. «È stato fantastico», mi disse. Era per conto suo, e lavorava. Se doveva soffrire per una battuta, ne avrebbe ottenuto qualcosa in contraccambio. «Non avrei mai vissuto ad Addis Abeba per un mese altrimenti». Rimase colpita di come era differente lì la vita. Le aree rurali avevano energia solo a intermittenza e niente acqua corrente o Internet. Anche la capitale, mi disse, aveva pochi nomi delle strade o indirizzi.
Addis Abeba fu splendida per un mese, ma andandovi sapeva che non sarebbe stato per molto. Era una newyorchese. Sacco è nervosa e insolente e ha un’aria di fascino. E così si rimise al lavoro a Hot or Not, che era stato un sito popolare per votare l’aspetto fisico di sconosciuti sulla rete pre-social e che si stava reinventando come una applicazione per appuntamenti.
Ma nonostante la sua quasi invisibilità sui social media, veniva ancora derisa e demonizzata su tutta Internet. Biddle scrisse un post su Valleywag dopo il suo ritorno al lavoro: «Sacco, che a quanto pare ha passato lo scorso mese a nascondersi in Etiopia dopo aver fatto infuriare le nostre genti con una battuta idiota, adesso è responsabile “market e promozione” a Hot or Not».
«Che perfezione!», scrisse. «Due sfigati sorpassati dalla storia, che si armano assieme per la rivincita».
Sacco sentì che la cosa non poteva andare avanti, così sei settimane dopo il nostro pranzo invitò Biddle fuori per una cena e cocktail. Dopo mi mandò una mail: «Penso che abbia un po’ di senso di colpa sulla questione», scrisse. «Non che abbia ritrattato niente» (mesi dopo, Biddle si sarebbe trovato dalla parte sbagliata della macchina del fango di Internet per aver twittato a sua volta una freddura: «ridateci il bullismo». Nell’anniversario dell’episodio di Sacco, pubblicò su Gawker scuse pubbliche nei suoi confronti).
Da poco ho scritto a Sacco per dirle che stavo mettendo la sua storia sul Times e le chiesi di incontrarmi un’ultima volta per aggiornarmi sulla sua vita. La risposta fu veloce: «Assolutamente no». Mi spiegò che aveva un nuovo lavoro nella comunicazione, anche se non volle dirmi quale. Disse: «Qualunque cosa che mi mette sotto i riflettori è negativa».
Era una rivoluzione profonda per Sacco. Quando la incontrai per la prima volta, voleva disperatamente far sapere alle decine di migliaia di persone che l’avevano fatta a pezzi quanto le avessero fatto torto e come volesse recuperare quanto rimaneva della sua figura pubblica. Ma forse era ora giunta a comprendere che il suo essere stata messa alla gogna dopo tutto non riguardava davvero lei. I social media sono così perfettamente costruiti per manipolare il nostro desiderio di approvazione che questo era stato ciò che aveva condotto alla sua rovina. Mentre la abbattevano i suoi torturatori hanno ricevuto un’approvazione istantanea, momento per momento, e perciò hanno continuato. La loro motivazione era in buona parte la stessa di Sacco – una petizione perché degli estranei prestino attenzione – mentre vagabondava per Heathrow, sperando di divertire persone che non poteva vedere.
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